Carcere Santa Maria Capua Vetere,
il racconto dei detenuti: «Costole rotte»

Carcere Santa Maria Capua Vetere, il racconto dei detenuti: «Costole rotte»
di Mary Liguori
Giovedì 1 Luglio 2021, 08:00 - Ultimo agg. 16:52
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«Parlare con i giornali col rischio di finire ammazzato appena mi arriva il definitivo e torno in carcere? È un rischio che non mi sento di correre, sono già molto preoccupato perché ho identificato personalmente i poliziotti che ci hanno massacrati a Santa Maria Capua Vetere». Sono le parole di uno dei detenuti vittime dei pestaggi del 6 aprile del 2020. Scarcerato di recente, risponde alle domande al telefono mentre è ai domiciliari, ma chiede l'anonimato. «So che gli agenti che mi hanno rotto le costole, strappato la barba con le mani, umiliato in ogni modo, sono ora in carcere, ma temo che i loro colleghi, vedendo la mia faccia o il mio nome sul giornale, possano vendicarsi colpendomi quando sarò di nuovo detenuto: loro sono un branco che si copre le spalle a vicenda». Vincenzo (e il nome, con questa premessa è, per forza, di fantasia) è uno di quelli che ha riempito pagine e pagine di verbali durante i lunghi giorni che hanno seguito l'«orribile mattanza» di Santa Maria Capua Vetere, parole del gip, che ha portato a 55 misure cautelari e alla interdizione per il capo del Dap Campania, Antonio Fullone. «Quella mattina incontrammo due ispettori e un commissario: eravamo terrorizzati perché scoprimmo che c'erano diversi detenuti positivi al covid. Chiedemmo mascherine e tamponi. Qualche ora dopo ci furono date. Sembrava tutto finito. Invece pagammo caro per quelle mascherine. A sera ci vennero a tirare fuori dalle celle, ci trascinarono via a forza di botte. Io finii in isolamento con altri compagni. E lì ci picchiarono ancora. Avevo le costole fratturate ma non mi diedero neanche un antidolorifico. Ci privarono anche di cibo e acqua. Ci diedero da mangiare solo dopo l'intervento del magistrato di sorveglianza, Marco Puglia, che venne a farci visita il giorno 9 aprile e ci trovò sporchi, affamati e ancora con i vestiti sporchi di sangue». 

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— Domani (@DomaniGiornale) June 29, 2021

Vincenzo sta scontando una pena per rapina e lesioni. Con lui quel giorno in isolamento, trasferito a calci e manganellate dal reparto Nilo al Danubio, c'era anche un giovane spacciatore napoletano. Anche lui riportò ferite gravi durante i pestaggi, ma le peggiori conseguenze le ebbe dopo. Dopo le percosse e dopo aver visto morire Lamine Hakime, l'algerino schizofrenico massacrato di botte e poi messo in isolamento senza assistenza né farmaci. Il suo compagno di cella dichiara che «dormì per tre giorni, era sul letto già quasi morto». Poi il decesso, secondo l'autopsia avvenuta per ingerimento di oppiacei che non si sa come si procurò visto che era in isolamento. Il ragazzo che era con lui, che sta scontando una condanna a pochi anni per detenzione di droga, è uscito devastato da quella esperienza. Lo psichiatra che lo visitò successivamente parla di «tendenze suicide dovute alle violenze e agli abusi subiti», di «forte stress post traumatico» e i racconti di chi era con lui in quei giorni di cella successivi i pestaggi confermano la diagnosi. «Lo trovai in piedi su una sedia con una corda che era lì pronto a impiccarsi, era molto provato, credo che se lo avessi visto qualche istante dopo si sarebbe ucciso. Non riusciva a superare quello che ci avevano fatto, non dormiva più continuava a rivivere quei momenti. Non so se oggi sta meglio, io poi sono stato trasferito», racconta un altro detenuto. Dagli atti spunta poi il nome di un giovanissimo detenuto casertano, trasferito ad altro istituto subito dopo la denuncia, che accetta di parlare, ma pondera le parole. In carcere deve starci trent'anni sconta una condanna per omicidio e «non voglio che anche in questo istituto sappiano che ho denunciato dei poliziotti, penso che prima o poi me la faranno comunque pagare, ma non mi pento di quello che ho fatto: ho raccontato tutto ai magistrati, io ho sbagliato e voglio pagare, ma non con la mia vita. Quella sera mi hanno trascinato per le scale tirandomi su per il collo, alcuni di quegli agenti li conoscevo perché erano di Santa Maria Capua Vetere, e ho fatto i loro nomi ai magistrati, ma di altri non sono riuscito a vedere neanche il volto: avevano i caschi. Un altro aveva la mascherina e un cappuccio calato sulla testa. Lo ricordo perché mentre gli altri picchiavano e insultavano, lui sferrava le manganellate in silenzio. Mi hanno massacrato almeno in quattro, altri picchiavano altri compagni.

Pensai seriamente che non sarei riuscito ad arrivare in cima alla rampa di scale, che sarei morto prima». 

Video

Racconti documentati dai video pubblicati in questi giorni, filmati che hanno scatenato da un lato indignazione per le vittime, dall'altro la rabbia dei sindacati di polizia penitenziaria che parlano di «gogna mediatica e di rischi per l'intero corpo». «Pubblicare le foto dei poliziotti e i loro indirizzi mette in pericolo anche le loro famiglie: qualcuno potrebbe vendicarsi colpendoli», dicono i sindacalisti. E ieri, durante i primi interrogatori di garanzia, alcuni degli agenti si sono difesi. Uno di loro ha spiegato, rendendo spontanee dichiarazioni al gip Sergio Enea, che «gli errori commessi quel giorno sono frutto della forte tensione in cui siamo costretti a lavorare». Da anni la polizia penitenziaria recrimina carenza di personale, da due giorni le loro istanze sono allegate alla difesa della categoria nei commenti garantisti per i vergognosi fatti di Santa Maria Capua Vetere. Intanto, tra i detenuti che non hanno denunciato ma, a dire dei loro compagni, di botte ne hanno prese a loro volta, serpeggia la paura perché gli agenti coinvolti nei pestaggi, ma non raggiunti da alcuna misura cautelare, sono ancora in servizio. 

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