Carcere Santa Maria Capua Vetere,
le botte delle donne armate di manganello

Carcere Santa Maria Capua Vetere, le botte delle donne armate di manganello
di Mary Liguori
Venerdì 2 Luglio 2021, 09:00 - Ultimo agg. 3 Luglio, 09:32
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È un fiume in piena, Vincenzo Cacace, il detenuto simbolo delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, preso a manganellate mentre viene spinto fuori dalla cella in carrozzella. Un fiume in piena, Cacace, tanto impetuoso da riferire, nelle decine di interviste rilasciate in questi giorni, di aver visto la direttrice del carcere brandire un manganello il pomeriggio del 6 aprile del 2020.

Una circostanza falsa. «Ma lei è sicuro che fosse proprio la direttrice?», «Ehm forse no anche altri l'hanno vista forse era la commissaria, comunque c'era anche una donna». Cacace ritratta al telefono con Il Mattino. Poi è la stessa direttrice del penitenziario casertano, dopo giorni di silenzio, a intervenire. «Come sapete, ero assente in quei giorni, sono stata a casa per tre mesi per motivi di salute, come potevo essere in carcere con un manganello in mano?», commenta Elisabetta Palmieri che poi commenta per la prima volta lo scandalo che ha travolto l'istituto penitenziario: «le violenze sono inammissibili, ma nei giorni precedenti c'erano state proteste violente da parte dei detenuti, presero possesso delle sezioni, ma l'iter processuale è solo agli inizi.

C'è stata l'accusa, ora c'è la difesa». E infatti ieri sono iniziati gli interrogatori di garanzia, con molti degli indagati che si stanno difendendo dicendo di avere «solo eseguito gli ordini ricevuti dall'alto», mentre dalle migliaia di pagine della misura spiccata dal gip Sergio Enea si delineano i ruoli delle tre donne poliziotto presenti quel giorno a Santa Maria Capua Vetere.

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Sono l'ispettrice Roberta Maietta, Nunzia Di Donato, comandante del nucleo traduzioni e piantonamenti di Santa Maria Capua Vetere, e Anna Rita Costanzo, commissario capo responsabile del reparto Nilo, finita ai domiciliari. Nessuna delle tre compare nei video agli atti. Ma alcuni detenuti parlano di loro; sostengono che la Maietta fosse presente alle violenze, brandendo uno sfollagente, e dicono che anche la Costanzo, la commissaria, commise soprusi. Uno di loro ha anche riconosciuto la poliziotta Maietta in fotografia, tuttavia per il giudice il detenuto «è incerto». Circostanza che ha spinto il gip a non emettere misure nei suoi confronti.

Diverso per la Costanzo, che i detenuti chiamano «la riccia», ai domiciliari e già interrogata nei mesi scorsi. «Non ho visto veri e propri pestaggi, ma detenuti colpiti con il manganello lungo le scale; - ha dichiarato - una scena che mi colpì. Un detenuto era stato fatto uscire dalla cella e schiaffeggiato mentre correva. Nella sala socialità c'erano una decina di detenuti, inginocchiati faccia a muro. Chiesi ai colleghi di Secondigliano perché avessero agito così, mi dissero che li avevano resi inoffensivi, per evitare possibili reazioni».

La Costanzo riferisce anche di avere notato che quel giorno i monitor dell'impianto di sorveglianza erano spenti ma di non essersi interrogata sul perché di tale anomalia e che, in via del tutto straordinaria, agli agenti era consentito l'uso dei telefonini all'interno del penitenziario, cosa di solito è proibita. Quanto alla dirigente Mariella Parenti, che sostituiva la direttrice in malattia, scrive il gip: «Nulla emerge in ordine alla presenza di Parenti all'interno del reparto Nilo in occasione della perquisizione straordinaria». Ma la Procura riporta agli atti le chat in cui la donna si autodefinisce «lingua biforcuta» parlando con il capo Dap Campania, Antonio Fullone. «Mi ha contattato l'Ansa ho colto l'occasione, ormai ho una lingua biforcuta, per invitarli a filtrare ogni notizia in quanto anche la più semplice informazione può in questa fase delicata creare allarmismo...chi ha orecchie, intenda». Poi chiude ringraziando Fullone «per il risoluto intervento al Nilo».

A ogni modo, se ci sono altre circostanze da chiarire, sarà dopo l'esposto che Cacace, ormai libero, dice che presenterà a breve. Ma perché non ha denunciato subito? Ha paura? «Ma non ho paura per me, io non ho paura di niente, - risponde - non l'ho fatto per proteggere i compagni, ma ora denuncio». Silenzio, dunque, all'inizio, poi l'uomo diventato il simbolo dei soprusi, perché le manganellate le prende su una sedia a rotelle dove è costretto per una trombosi alle gambe, rilascia interviste a iosa. È un unicum perché il clima tra chi ha vissuto la notte degli orrori di Santa Maria Capua Vetere è di terrore. Chi parla implora anonimato. Passano i giorni e la paura di chi ha denunciato e anche di chi non lo ha fatto aumenta. Oggi è alle stelle. Tanto che uno dei detenuti, benché trasferito ad altro istituto, continua a temere per la propria vita. Al punto da uscire dalla cella con una lametta in bocca. «Se mi aggrediscono mi devo difendere» ha detto al suo avvocato. Vincenzo Cacace, invece, è da giorni su tutti i media, stava scontando una pena a 29 anni di carcere per associazione per delinquere e contrabbando. «Quello che è successo quel giorno? Che vi devo dire, in tanti anni di carcere, di cui cinque a Santa Maria Capua Vetere, non ho mai visto una cosa del genere. Credetemi, una cosa è guardare quel video, un'altra aver vissuto quei momenti». Quando colpiscono anche Cacace, c'è incredulità in carcere. È vicino alla malavita organizzata, ma non in alta sicurezza. Gli altri detenuti stentano a credere che abbiano osato picchiare anche lui, benché le manganellate gli vengano sferrate dai poliziotti sotto i loro occhi. E infatti racconta uno di loro ai pm: «Ho sentito che Cacace veniva insultato da un agente che diceva Qua comandiamo noi, I Puccinelli non sono nessuno».

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