Ci sono tre fratelli al centro del traffico di droga nel carcere di Carinola. Uno di loro, minorenne, veniva usato come «mulo» tra il fratello libero e quello detenuto per introdurre la droga nell'istituto di pena. E poi ci sono le mamme e le mogli dei carcerati-pusher e dei carcerati tossicodipendenti che da un lato portano dentro la droga, dall'altro pagano per quella consumata dai loro congiunti dietro le sbarre. E c'è anche chi per portare dentro la «roba» approfitta dei permessi premio.
E rientra, in cella, carico di fumo e cocaina. Sono alcuni degli spaccati dell'inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere, diretta da Carmine Renzulli, che ieri ha ottenuto arresti e divieti di dimora per 10 soggetti tra detenuti ristretti al Novelli di Carinola e loro parenti indagati per un traffico di droga all'interno del penitenziario.
Spacciavano, dunque, la droga fornita dai loro parenti.
L'inchiesta, però, ha un genesi particolare. La Procura sta indagando su un giro di corruzione che coinvolge un pubblico ufficiale in servizio nel penitenziario (un civile addetto a ruoli amministrativi) quando scopre che alcuni degli ospiti del Novelli gestiscono lo spaccio in sezione, utilizzata come una vera e propria «piazza». Tre detenuti, interrogati su input della polizia penitenziaria, ammettono che i loro compagni di reparto si fanno «arrivare la droga da fuori» e che poi «la rivendono» o la regalano ad altri carcerati. La Procura dispone le intercettazioni. E i colloqui con i familiari diventano illuminanti. Ma non solo quelli.
Quando nei dialoghi si fa riferimento a «ricariche Postepay» da fare alla madre di uno dei carcerati, scattano anche i controlli sulle prepagate. E vengono fuori pagamenti ingiustificabili, se non con l'approvvigionamento di stupefacenti che in carcere circola come provano gli agenti della polpen che eseguono svariati sequestri nel corso dell'indagine. Somme che vanno dai 50 ai 500 euro finiscono nel mirino degli investigatori insieme a tutta una serie di circostanze che emergono dai dialoghi tra madri e figli puntualmente registrati dalle cimici dei carabinieri. E poi i droni. In più occasioni i poliziotti penitenziari scoprono che uno di quegli aggeggi plana nelle aeree interne al carcere e che è stato usato per introdurre hashish. Le evidenze messe insieme in lunghi mesi d'indagine dai carabinieri, supportati anche dalla polizia penitenziaria, hanno portato alla misura eseguita ieri dai militari di Mondragone su ordine del gip Alessia Stadio. Gli indagati applicavano una tariffa «a doppio» ai danni dei loro clienti: il costo delle dosi veniva infatti calcolato con una maggiorazione del cento per cento.