Diana, «Un errore l'arresto: pentiti
contraddittori e indagini monche»

Diana, «Un errore l'arresto: pentiti contraddittori e indagini monche»
di Mary Liguori
Venerdì 9 Agosto 2019, 08:05 - Ultimo agg. 10:54
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I fratelli Antonio e Nicola Diana, titolari della Erreplast, figli di Mario, vittima innocente della camorra e impegnati sul fronte dell’antimafia civica da anni, hanno passato quattro mesi ai domiciliari, ma non avrebbero dovuto essere arrestati. E neanche loro zio, Armando, andava ristretto ai domiciliari. Sono le conclusioni della sesta sezione penale della Cassazione presieduta da Stefano Petitti, relatore Maria Sabina Vigna. Il quadro accusatorio della Dda di Napoli, che colloca i Diana nel cerchio magico degli imprenditori vicini a Zagaria, aveva superato sia il vaglio del gip, Maria Luisa Miranda, che quello del Riesame, (X sezione presidente Valente, a latere Picciotti e Pandolfi). Poi il tonfo in Cassazione con un’ordinanza di annullamento senza rinvio. 
I NODI 
Due le circostanze che hanno indotto gli ermellini a scrivere la sentenza di annullamento lo scorso 30 maggio. In primo luogo le esigenze cautelari: le presunte condotte illecite sono terminate nel 2010, sicché manca il principio di attualità. Dall’altro lato c’è il ragionamento tecnico dei giudici sulla qualificazione giuridica del concorso esterno in associazione mafiosa. Il Riesame, per la Cassazione, in questo difetta di motivazione. I soli collaboratori di giustizia non bastano a chiarire la contropartita che sarebbe andata ai Diana dal pagare il pizzo a Zagaria: il danaro è stato effettivamente versato, e i Diana hanno denunciato anche se, secondo la Dda, in ritardo; i due fratelli sono stati vessati con modalità meno aggressive toccate ad altri imprenditori, tuttavia non viene esplicitato quale sia stato il vantaggio per i Diana dall’avere versato la quota a Zagaria. 
PENTITI: RACCONTI MONCHI
I pentiti si sono contraddetti, in certi casi hanno aggiustato il tiro, alcuni si sono smentiti a vicenda. I Diana si preparano ora al rush finale della loro battaglia giudiziaria: sono assistiti dagli avvocati Carlo De Stavola, Claudio Botti, Giuseppe Stellato e Giovanni Aricò. Per la Dda i Diana sono i soci di Michele Zagaria, per la Cassazione dalla presunta amicizia col boss non hanno avuto alcun rendiconto. Perché versavano la quota del pizzo al clan e quando i pentiti dicono che, essendo sotto l’ala protettiva di Michele «capastorta» non dovevano pagare le estorsioni anche alle altre fazioni della cosca, nello specifico i Russo-Schiavone. Ma il denaro di Zagaria finiva in cassa comune dei Casalesi per cui non è chiaro cosa gli indagati abbiano risparmiato. 
LE VERIFICHE MANCATE
Agli atti delle motivazioni c’è il passaggio sulle contraddizioni dei tanti pentiti ascoltati nel corso delle indagini della polizia, esclude sia che i Diana abbiano fatto parte del cerchio magico degli imprenditori del boss Michele Zagaria, sia che siano stati la cassa di cambio del clan dei Casalesi. Sono indicative, chiare, univoche, secondo i giudici, le denunce sporte nel tempo dai Diana contro il racket, la loro costituzione di parte civile al processo per l’omicidio di loro padre. Le loro scelte nette cozzano con le fumose ricostruzioni dei pentiti, «generiche» scrivono gli ermellini, con i racconti «modificati» dai collaboratori in corso d’opera, che prima hanno indicato i Diana come vittime del racket poi li hanno accusati di essere soci di Zagaria. «Non viene spiegato il motivo per cui è attribuita credibilità alle dichiarazioni dei pentiti Pellegrino e Caterino, che indicano solo in un secondo momento i Diana come amici di Zagaria, mentre prima li avevano descritti come vittime di estorsione», scrivono gli ermellini. «Quanto al pentito Lucariello - aggiungono - indica Diana solo dopo aver proceduto a un sopralluogo con la polizia giudiziaria». A margine di tutto ciò, l’accusa di aver cambiato assegni per fornire liquidità al boss. Ne parlano i pentiti, alcuni dei quali descrivono i due fratelli come una sorta di bancomat del boss, ma sarebbero bastati accertamenti bancari, la bacchettata della Cassazione, inspiegabilmente non eseguiti, per documentare quest’accusa o per smentirla. 
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