La scomparsa della pen drive di Zagaria, il poliziotto sotto accusa: «Mai presa»

Per i pm anticamorra avrebbe venduto per 50mila euro la pen drive ad un imprenditore ritenuto colluso con il clan dei Casalesi

Il poliziotto Oscar Vesevo durante l'arresto di Zagaria
Il poliziotto Oscar Vesevo durante l'arresto di Zagaria
Martedì 7 Febbraio 2023, 20:30 - Ultimo agg. 8 Febbraio, 07:57
3 Minuti di Lettura

«Non ho preso alcuna pen drive dal covo di Michele Zagaria, durante le operazioni di cattura sono stato tutto il tempo nel corridoio a scavare per trovare il bunker. E senza di me il capo dei Casalesi non sarebbe stato catturato». Lo ha detto il poliziotto Oscar Vesevo, imputato presso il tribunale di Napoli Nord per la scomparsa di una pen drive dal covo di via Mascagni a Casapesenna in cui fu stanato il super boss dei Casalesi Michele Zagaria; un supporto che per gli inquirenti - la Dda di Napoli - avrebbe contenuto i segreti del capoclan. Vesevo è accusato di corruzione e accesso abusivo a sistemi informatici in uso alla polizia.

Per i pm anticamorra avrebbe poi venduto per 50mila euro la pen drive ad un imprenditore ritenuto colluso con il clan dei Casalesi, Orlando Fontana, che però in un altro processo è stato assolto da questa accusa per mancato raggiungimento della prova.

Il poliziotto (difeso da Giovanni Cantelli) ha ricordato quella mattina del 7 dicembre 2011, quando fu catturato il capo dei Casalesi; allora era alla Squadra Mobile di Napoli. «Eravamo in quattro nel corridoio della casa di Rosaria Massa e Vincenzo Inquieto (i due coniugi arrestati e condannati per favoreggiamento), io sapevo dove era il bunker, e così scavavamo; c'era poi un poliziotto della Mobile alla fine del corridoio che controllava che non entrasse altra gente, visto che davanti casa c'erano tantissime persone». Ad accusare direttamente Vesevo è stata Rosaria Massa nel corso della testimonianza resa nel processo.

La donna ha raccontato di aver visto Vesevo che prendeva la pen drive incastonata in un ciondolo a forma di cuore della Swarovski, aggiungendo però che la stessa non era del boss ma di proprietà della figlia, e che all'interno c'erano solo canzoni, foto e documenti. La donna sottolineò inoltre come Michele Zagaria non fosse molto pratico nell'utilizzo dei supporti informatici.

Video

Nel corso dell'esame reso oggi, Vesevo ha risposto all'accusa, dicendo che «la Massa ha più di qualche ragione per avercela con me, avendola io arrestata insieme al marito». Per quanto concerne la contestazione di accesso abusivo a sistemi informatici in uso alla polizia, Vesevo si è difeso spiegando di «aver fatto parecchi accessi allo Sdi (la Banca dati della Polizia, ndr) su delega del capo della Squadra Mobile specie dopo la cattura dell'altro capo dei Casalesi Antonio Iovine, avvenuta nel 2010, e ciò per intensificare le indagini per catturare Zagaria. Ho sempre relazionato ai miei superiori con molte comunicazioni riservate, e nessuno mi ha mai contestato nulla. Peraltro l'accesso non avviene in forma anonima, ma con username e password che sono personali». Il processo è stato aggiornato al prossimo 14 marzo, quando sarà sentito l'ex capo della Squadra Mobile di Napoli Fausto Lamparelli e altri due investigatori impegnati nella cattura di Zagaria. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA