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Morto dopo le torture in cella,
non guidò la rivolta: la prova in un video

di Mary Liguori
Articolo riservato agli abbonati
Venerdì 31 Dicembre 2021, 07:50 - Ultimo agg. : 1 Gennaio, 09:17
3 Minuti di Lettura

Ci sono le prove delle loro menzogne, mancano le prove della loro «verità». Mancano perché non ci sono, la loro è una «realtà» costruita a tavolino, male il giorno prima dei pestaggi, peggio quello seguente e quello dopo ancora. Non ci furono lesioni e minacce ai danni degli agenti della polizia penitenziaria in servizio a Santa Maria Capua Vetere e per questo le loro accuse sono oggetto di una richiesta di archiviazione da parte della Procura. 
 
Maldestri tentativi di costruire un antefatto con foto di «materiale ritrovato nelle celle», quei pentolini di olio bollente, quei piedi di tavoli e sedie usati a mo di mazze, quei pugnali ricavati dal legno delle suppellettili. Quelle «armi rudimentali» fotografate chissà dove e fatte passare, per ordine superiore, per un arsenale che era a disposizione dei detenuti del reparto Nilo mentre il covid stringeva l’Italia in una morsa d’acciaio e in carcere il primo positivo faceva scoppiare il terrore ben presto trasformato in rivolta. Perché l’unica cosa vera è che i detenuti quel maledetto 5 aprile 2020 protestarono, perché volevano mascherine e tamponi, ma non minacciarono le guardie, non procurarono lesioni ad alcuno, non distrussero il reparto. Si rifiutarono, questo sì, di rientrare in cella e ottennero, infatti, una fornitura di mascherine quella sera stessa. Sembrava tutto finito. Non era così. Il giorno dopo, come ormai è arcinoto, un pattuglione di duecento agenti irruppe al Nilo e, a sangue freddo, rimise le «cose a posto».

APPROFONDIMENTI
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«Riprendiamoci il carcere» il motto degli oltre cento poliziotti sotto processo e delle decine e decine di agenti che l’hanno scampata perché quel giorno avevano il casco e non sono stati identificati. Ma per creare un precedente, per giustificare la violenza, i dirigenti della Penitenziaria chiesero «le teste» dei capi della rivolta e, scegliendo tra i detenuti «ultimi tra gli ultimi», gli esecutori di quell’ordine andarono a pescare dalla psichiatria, tra gli ergastolani, e tra gli stranieri. Dodici «predestinati» furono messi in isolamento. E furono «liberati» solo dopo l’arrivo in carcere del magistrato di sorveglianza Marco Puglia. Avevano ancora i vestiti insanguinati. Era l’8 aprile 2020, due giorni dopo la rappresaglia nel Nilo.


 Uno dei detenuti indicati come capi della rivolta, Hakine Lamine, non sopravvisse alla cella di rigore. Un mese dopo il pestaggio morì, ucciso da un cocktail di farmaci; per la Procura fu «causata delle torture». Agli atti anche i racconti dei detenuti che erano con lui negli ultimi istanti di lucidità quando, ormai in agonia, chiamava la madre. Coloro che sopravvissero, undici dunque, furono denunciati da una trentina di agenti per minacce, lesioni e resistenza (quest’ultima accusa in relazione al giorno dei pestaggi) ma la Procura di Santa Maria Capua Vetere come detto la vede diversamente. L’aggiunto Alessandro Milita e i sostituti Daniela Pannone e Maria Alessandra Pinto hanno infatti chiesto l’archiviazione per gli 11 detenuti ritenendo che l’intero teorema degli agenti oggi a processo per violenza e lesioni, quelle sì provate da video e referti, verta sul nulla.

Video

D’altronde Lamine, e lo si vede in un video, mangiava crackers sotto la porta della sua cella mentre gli altri protestavano. Ed era in una sezione diversa da quella interessata dai disordini, ma la Penitenziaria lo indicò falsamente tra i leader della protesta. È la prova regina delle menzogne. Una delle principali motivazioni della richiesta di archiviazione.
 

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