Pestaggi in carcere S. M. Capua Vetere:
«Ci chiesero di ritirare le denunce»

Pestaggi in carcere S. M. Capua Vetere: «Ci chiesero di ritirare le denunce»
di Marilù Musto
Domenica 4 Luglio 2021, 09:07 - Ultimo agg. 5 Luglio, 08:03
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I detenuti che si atteggiano a moralisti. Dove si era mai visto prima? Il massacro nel reparto «Nilo» nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nei confronti dei reclusi doveva restare segreto. Da una parte i buoni, dall'altra i cattivi. I capi non potevano restare ancorati alle scrivanie mentre i quotidiani riportavano, ogni giorno, particolari sulle violenze del 6 aprile 2020. Erano ore, momenti frenetici. Di sicuro partì un ordine: cancellate le prove del pestaggio. Dagli atti di indagine emerge - infatti - che furono fatte pressioni per far sparire le denunce contro i poliziotti.

E poi, c'è quella lettera di scuse firmata dai detenuti e finita nelle mani del provveditore dell'amministrazione penitenziaria della Campania, Antonio Frullone. Tutti tentativi maldestri di farla franca, di mettere «le carte al loro posto».

Fiato sprecato. Lo scandalo è esploso come una bomba e ieri - dopo le 52 ordinanze - sono stati trasferiti 30 detenuti dal carcere di Santa Maria Capua Vetere per tutelare chi ha subito violenze e denunciato. Azione maldestra pure questa. «Li hanno deportati», protesta la madre di uno di loro: «Mio figlio è stato trasferito in Calabria, a Palmi, ma qui ha un bambino piccolo, come facciamo ad andare fino in Calabria?». Il detenuto di Marcianise nel carcere calabrese da ieri, ha iniziato lo sciopero della fame. «Piange al telefono. Oltre al danno, la beffa», tuona Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania. Gli altri sono a Civitavecchia e a Modena.

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Lo spostamento dei detenuti è frutto di un sistema troppo «ingessato» di tutela. Ed è su questa leva che le «mele marce» della polizia penitenziaria hanno potuto contare per tentare di insabbiare le prove del pestaggio, un anno fa. L'ordinanza del gip è uno spaccato. «Un giorno, tre agenti di polizia mi invitarono a ritirare la denuncia per poter vivere tranquillamente nel carcere», racconta il detenuto Bruno d'Avino in un verbale. Lo conferma il suo compagno di cella, Ciro Motti: «Venni invitato nell'ufficio di sorveglianza per ritirare le denuncia - spiega - lo chiesero a me e a Engheben». Ma a chi venne l'idea di convocare i detenuti? Sarebbe stato un agente di sorveglianza. E infatti, quando ai detenuti viene mostrata la foto numero 36 del fascicolo, i due reclusi lo riconoscono: è il poliziotto Raffaele Piccolo di Marcianise.

Qualcuno, per paura, ritirò l'esposto. Per gli agenti non bastava. È il 9 aprile del 2020 e tentano un'altra strada. Coinvolgendo, stavolta, i superiori: il provveditore dell'amministrazione penitenziaria della Campania, Antonio Fullone. Nell'ordinanza firmata dal gip Sergio Enea salta fuori anche questo. A inoltrare la falsa lettera di scuse (per la sommossa del 5 aprile) dei reclusi al provveditore sarebbe stato Pasquale Colucci, comandante del nucleo piantonamenti di Napoli: «Sì, sono sul posto, ho raccolto tutto, ottimo. Anche lettera di scuse dei detenuti», dice a Fullone che tira un sospiro di sollievo. Ma le scuse sarebbero state imposte. Lo raccontano i detenuti: «La lettera di perdono indirizzata alla commissaria Anna Rita Costanzo era stata proposta due giorni dopo gli eventi da un detenuto della terza sezione, Valter Trofino, noi lo chiamiamo l'avvocato». Trofino, con Giuseppe Longobardi, cercarono di convincere i «colleghi».

È il 10 aprile del 2020, quattro giorni dopo il massacro. Chi viene avvicinato da Trofino non demorde: non ritira la denuncia né firma la missiva. «Me ne andai dalla stanza, ma l'ispettore mi guardò male», spiega un detenuto. Allora, si cerca una scorciatoia. La deposizione del detenuto «fedele», Trofino, il quale mette nero su bianco la sua dichiarazione: «Mi dissocio, sono stato costretto, con minacce fisiche e psicologiche, ad aderire alla rivolta e al barricamento del 5 aprile». La sua lettera viene portata al cospetto dei capi del provveditorato che la trasmettono ai superiori del ministero. Caso chiuso. Ma si sbagliano.

In realtà, di abusi parla nei suoi referti il medico che visita di detenuti picchiati che diagnostica un «disturbo da stress post-traumatico». Sul corpo di una vittima vengono trovate 111 ferite da manganello.
 

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