Pestaggi e depistaggi, il detenuto spia
al servizio degli agenti picchiatori

Pestaggi e depistaggi, il detenuto spia al servizio degli agenti picchiatori
di Mary Liguori
Venerdì 16 Luglio 2021, 08:00
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La parola chiave è «insabbiamento». Sin dai primi giorni successivi i pestaggi, quando si tentò di far passare i lividi e i tagli sui corpi martoriati dei detenuti per ferite accidentali, si è tentato di sviare l’attenzione dei magistrati e poi quella dell’opinione pubblica, su un binario che, oggi è chiaro, era morto prima di nascere. Punta su questo aspetto uno dei filoni dell’indagine che lo scorso 28 giugno ha scosso l’Italia intera, travolto la polizia penitenziaria e il Dap campano. Punta a comprendere fino a che livello si è agito per nascondere le violenze che si consumarono, sotto gli occhi delle telecamere, nel reparto Nilo del carcere Uccella di Santa Maria Capua Vetere. C’è stato chi ha picchiato, e dai frame pubblicati in queste settimane questo è l’aspetto più chiaro e che fa più impressione, ma c’è stato anche chi ha tentato di depistare mettendo mano ai documenti nei giorni dopo le rivolte, chi ha prodotto foto false di ritrovamenti di armi nelle celle, chi, ancora, ha fatto sparire atti interni al carcere e chi, infine, non ha fornito i nominativi di chi, manganello in pugno, si celava dietro un casco d’ordinanza mentre massacrava detenuti inermi, tra i quali soggetti con gravi problemi di tossicodipendenza o psichiatrici.
 
I depistaggi, cui il gip Sergio Enea dedica centinaia di pagine, passano anche attraverso un detenuto. Una sorta di «spia» della polizia penitenziaria, uno che teneva i piedi in due scarpe e che i carcerati chiamano «l’avvocato». Un «diplomatico» delle celle, un soggetto che fornì ad alcuni degli agenti oggi indagati elementi che avrebbero dovuto affossare l’indagine quando, all’indomani del sequestro di 67 cellulari dai quali furono ricavate le chat che incastrano i responsabili degli abusi, convinse i suoi compagni di sventura a firmare addirittura una «lettera di scuse». Una lettera che, nei piani di chi la ideò, avrebbe dovuto «certificare» che quelli che avevano sbagliato erano i detenuti, non i poliziotti. Ma anche quel tentativo tanto goffo quanto grave di insabbiare l’inchiesta è andato a monte. 
 
E più i giorni passano, più si ha la sensazione che mentre vanno avanti le udienze al tribunale del Riesame, che sta convalidando nel complesso le tesi della Procura, continuano le indagini su un paio di dozzine di soggetti coinvolti negli orrori del Nilo e tutt’ora a piede libero. L’onda mediatica non accenna a calare, anzi ha subito una nuova impennata con la visita del primo ministro Draghi e del guardasigilli Cartabia al carcere di Santa Maria, due giorni fa. Una presenza, quella del premier e del ministro della Giustizia, di altissimo valore simbolico e di risvolti concreti. Pesanti le parole del premier «Siamo qui per affrontare le nostre sconfitte». Suonano già come una condanna, come il passaggio della Cartabia sulla necessità di «rifondare il sistema penitenziario». Un sistema al collasso da anni che si è infranto di fronte ai video che mostrano la violenza, bruta e vigliacca, dei servitori dello Stato contro ladruncoli, piccoli spacciatori, drogati e malati psichiatrici. 
 

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