Pestaggio in carcere, detenuti trasferiti
al Nord per evitare nuove vendette

Pestaggio in carcere, detenuti trasferiti al Nord per evitare nuove vendette
di Mary Liguori
Venerdì 16 Luglio 2021, 00:19 - Ultimo agg. 19:01
4 Minuti di Lettura

Le carceri campane non sono sicure per i detenuti che hanno denunciato gli autori dei pestaggi nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. La metà dei poliziotti-picchiatori non è stata identificata ed è tutt’ora in servizio a Caserta, Poggiorale, Secondigliano e chissà dove altro. È questa la ragione dei trasferimenti delle ultime settimane a istituti lontani centinaia di chilometri, non solo dalla casa circondariale teatro delle violenze, ma anche da altri istituti campani in cui furono allocati subito dopo le denunce. Il pericolo, ormai è chiaro, non sono più quei poliziotti riconosciuti, arrestati, interdetti, ma coloro che quel giorno presero parte alle violenze, ma non sono stati identificati perché indossavano il casco o perché soggetti «ignoti» in quanto in congedo o addirittura in servizio in altri istituti. Quel pomeriggio molti agenti entrarono in carcere senza strisciare il badge: fu una sorta di liberi tutti. E, dunque, mentre il lavoro d’indagine continua anche per dare un nome ai picchiatori ignoti, sono già 49 i reclusi trasferiti per motivi di sicurezza fuori regione.

Ne hanno discusso ieri il garante dei detenuti campani, Samuele Ciambriello, insieme agli omologhi di Napoli e Caserta, Pietro Ioia ed Emanuela Belcuore, con il capo della Procura che ha la paternità della delicata inchiesta, Maria Antonietta Troncone.

Secondo la nota divulgata dai garanti, il procuratore ha spiegato che «il trasferimento è stato chiesto per coloro che hanno reso dichiarazioni, sia per tutelarli, sia per rendere più serena la loro permanenza in carcere, poiché sono coinvolti agenti di polizia penitenziaria operanti in diversi istituti penitenziari, oltre a quelli di Santa Maria». 

Video

Secondo i garanti, la decisione del Dap di spostare i detenuti che hanno puntato il dito contro i poliziotti violenti a San Gimignano, Firenze, Vibo Valentia, Palmi, Civitavecchia, Rieti, Spoleto, Perugia, Prato, Sollicciano, Palermo, a Modena «è una ritorsione piuttosto che una misura protezione». Secondo Ciambriello, la soluzione potrebbe essere quella di «riunire i reclusi in un unico istituto in prossimità della Campania in modo da garantire la territorialità della pena e agevolare avvocati e familiari nei loro spostamenti». Ed è questa la richiesta che i garanti inoltreranno formalmente il prossimo 3 agosto al capo del Dap, Bernardo Petralia, che ieri ha comunicato la fissazione dell’incontro attraverso la sua segreteria. 

Quei detenuti che ebbero il coraggio di denunciare i poliziotti aguzzini e di riconoscerli formalmente, nelle carceri campane sono dunque ancora in pericolo. Non più alla mercé di chi li ha presi a schiaffi, calci e manganellate il 6 aprile del 2020 a Santa Maria Capua Vetere ed è stato riconosciuto, ma da chi quel giorno prese parte alla rappresaglia, ma è tutt’ora in servizio perché mai identificato. Della task force che entrò nel reparto Nilo facevano parte oltre 200 poliziotti di cui non si conosce il nome. Gli unici identificati sono infatti gli agenti in servizio all’Uccella (gli indagati sono 117). Tutti gli altri sono tutt’ora in servizio e su di loro non pende alcuna accusa in quanto i loro nomi sono ignoti. E alcuni familiari parlano tutt’ora di pressioni finalizzate a far ritirare le denunce. E poi, quello dei trasferimenti, è argomento che accompagna la vicenda sin dal principio. Nei giorni immediatamente successivi i pestaggi, si tentò infatti di spedire in altri istituti quindici detenuti, ritenuti gli autori delle proteste dei giorni precedenti le violenze. Il trasferimento non ci fu solo perché si era in piena emergenza covid e le disposizioni dovute al virus impedirono che i reclusi fossero allontanati dal penitenziario casertano. Ma furono comunque spostati, dal reparto Nilo (dove alloggiano detenuti comuni) alle celle di isolamento del Danubio. Ne entrarono quindici, ma solo quattordici ne uscirono.

Lamine Hakine morì in una di quelle celle di isolamento in seguito alle botte e all’assunzione di oppiacei. Per la Procura fu morte a seguito dei pestaggi e delle torture, ma il gip ha respinto tale ipotesi considerando il decesso dell’algerino un suicidio. La questione è però ancora aperta: il pm ha appellato il rigetto dinanzi al tribunale del Riesame. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA