L’indagine che ieri ha scompaginato il gruppo casalese operante in Toscana inizia nel 2016, sulle figure di due commercialisti casertani che, in quel momento, sono impegnati a cercare strutture commerciali immobiliari da rilevare a Firenze e dintorni.
Dalle verifiche balza subito all’occhio che i due sono in contatto costante con soggetti legati agli ambienti della criminalità organizzata campana. Di qui l’accertamento sulla provenienza dei capitali utilizzati per gli investimenti. A quel punto vien fuori dalla cerchia dei due professionisti campani, la figura di Luigi Diana, un 46enne di Casapesenna domiciliato a Bagno a Ripoli in provincia di Firenze, nipote dell’omonimo Luigi Diana, detto Gigino ‘o diavolo, esponente di spicco del clan Zagaria. Lo stesso Diana è cugino di Garofalo, uno dei vivandieri del boss Zagari ai tempi della latitanza. Dagli accertamenti su Luigi Diana, i finanzieri ricostruiscono una rete di cooperative, una holding vera e propria, ritenuta sotto il controllo dei Casalesi, e poi finite al centro dell’inchiesta Minerva, eseguita ieri. Il flusso di denaro segue uno schema preciso: le imprese emettono le fatture fittizie, i beneficiari predispongono i bonifici in modo da poter giustificare la fattura. Gli organizzatori degli illeciti fanno ritirare i soldi dai conti delle società cartiere attraverso vari sistemi, tra cui i conti correnti postali. Le somme vengono restituite ai beneficiari delle fatture false, ovviamente decurtate delle commissioni spettanti agli esecutori dell’illecito. Tutto avviene attraverso tre tipi di società: le capofila, generalmente coop dalle quali nascono i flussi finanziari del sistema di frode; le società intermediarie che fungono da emittenti di fatture per operazioni inesistenti e che poi spostano le somme ricevute dalle capofila con una serie di altri bonifici alle società prelevatrici (terzo livello), generalmente Srls o ditte individuali che rappresentano il terminale finale del sistema fraudolento. Il destino del denaro è rientrare nella disponibilità del sodalizio criminale con l’emissione di fatture per operazioni inesistenti alle società intermediarie che provvedono al loro pagamento tramite bonifico. Le società prelevatrici sono «cartiere», ovvero vengono create per attuare la fase finale del sistema fraudolento.
L’intera somma prelevata, corrispondente all’importo del bonifico a monte, viene restituita a Ferri dei referenti dei due prelevatori, decurtata dei compensi spettanti per la prestazione resa che equivale alla percentuale del valore dell’Iva. Il denaro viene poi restituito agli imprenditori finali che godono degli indebiti risparmi di imposta e che li accantonano sui fondi neri. Tra le società che all’epoca dell’indagine su Ferri godevano del suo sistema ve ne sono diverse di quelle colpite dalla misura di ieri. Di recente, i collaboratori di giustizia hanno collocato Ferri nell’orbita dei Casalesi: lo hanno definito il tesoriere dell’organizzazione criminale, capace di muovere fatture false per 80 milioni di euro. La provvista in denaro contante viene usata, secondo la Dda, per pagare gli stipendi degli affiliati e in generale per alimentare la cassa del clan.