Terrorismo, il custode della moschea verso il processo

Terrorismo, il custode della moschea verso il processo
di Mary Liguori
Domenica 8 Gennaio 2017, 10:05
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L’esistenza di una cellula jihadista in Campania non è un’ipotesi da archiviare. La Dda di Napoli non si ferma di fronte alle due istanze d’arresto respinte dal gip e chiude le indagini per Mohammed Khemiri, l’ex custode della moschea di San Marcellino accusato di proselitismo. A giorni chiederà il processo.
Il pm titolare dell’inchiesta, Luigi Alberto Cannavale, in forza al pool Antiterrorismo guidato dal procuratore aggiunto Fausto Zuccarelli ha già firmato l’avviso di chiusura indagini, atto preliminare alla richiesta di rinvio a giudizio per il tunisino che, intanto, si trova in carcere con l’accusa di traffico di documenti falsi per favorire l’immigrazione clandestina. D’altronde, all’indomani dell’arresto di Khemiri e dei suoi complici - era l’agosto scorso - la posizione della Dda di Napoli furono espresse in maniera netta attraverso la richiesta di misura cautelare. Khemiri aveva «ufficializzato» attraverso i social la sua adesione all’Is, esultato dopo la strage di Charlie Ebdo, pubblicato il manuale del «perfetto attentatore», osannato i martiri di Allah con una serie di post su Facebook, poi tutti raccolti dai carabinieri del Ros di Napoli. Un’adesione netta, ma solo «ideologica» secondo il gip. Diversa la posizione della procura che, invece, nel chiedere di fermare il tunisino ne ricostruì la personalità parlando di un individuo «aderente a una precisa ideologia che sempre più spesso, come insegna la cronaca, sfocia in reali episodi di violenza». 
Un «lupo solitario», così venne definito il custode della moschea di San Marcellino, pronto a colpire in qualsiasi momento, non per forza con l’appoggio di una rete di complici, sebbene nel suo appartamento, al piano superiore della moschea, avesse messo su una centrale dei documenti falsi insieme ad alcuni suoi connazionali, e benché via web fosse in contatto con altri immigrati vicini alle ideologie dell’Is. La sua, secondo la Dda, non era l’innocua posizione di un «sostenitore a distanza» dell’Is, ma quella di un potenziale attentatore. Usava Facebook per definirsi «isissiano», ma anche per augurarsi «la fine degli adoratori della croce» e divulgare l’immagine di una bandiera francese pestata da uno stivale, al pari di altri immigrati poi finiti sotto inchiesta per terrorismo a Bari, ma assolti dalla Cassazione. 
Su Khemiri le indagini sono chiuse. Tuttavia si è appreso di recente che dalla moschea di San Marcellino sono partite altre segnalazioni su presunti casi di proselitismo. E l’intelligence lavora ormai da settimane sulla rete di contatti italiani di Anis Amri, l’attentatore ucciso a Milano dopo aver sterminato 12 persone a Berlino. Come Khemiri, Amri fu definito «pericoloso a causa della sua ideale adesione all’Is». Sbarcato in Italia da clandestino nel 2011, si dichiarò minorenne benché non lo fosse e fu trasferito in un centro di accoglienza per ragazzi dove partecipò a una rivolta in seguito alla quale fu condannato a 4 anni di carcere. E fu durante la detenzione, prima a Catania e poi all’Ucciardone di Palermo, che il Dap stilò un rapporto poi trasmesso al Comitato Analisi strategica dell’antiterrorismo, segnalando «episodi in cui manifestava forme di radicalizzazione e di adesione ideale al terrorismo di matrice islamica». 
Il passaggio dal sostegno ideologico al Daesh all’azione ispirata dalla deriva fondamentalismo islamico, nel caso di Amri, si è tragicamente concretizzata. Una storia sulla quale la Dda di Napoli potrebbe fare leva per ottenere il processo per Khemiri.  
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