«Mio padre ucciso dal clan,
la verità dopo 26 anni di silenzi»

«Ucciso dalla camorra, la verità su mio padre dopo 26 anni»
«Ucciso dalla camorra, la verità su mio padre dopo 26 anni»
di Marilù Musto
Mercoledì 2 Gennaio 2019, 05:35 - Ultimo agg. 10:09
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«Cosa direi agli assassini? Nulla. Dopo 26 anni non ho più parole. La camorra ha ucciso mio padre quando io avevo solo otto anni, la sentenza che ha condannato i presunti responsabili è una risposta a tante mie domande, troppe». Ora è un ragazzo forte e sicuro di sè, ma per tanti anni Domenico Trombetta ha attraversato la sua vita senza conoscere la verità. E ancora adesso, quando parla di suo padre, gli tremano le mani. Ciò che non dice con le parole lo trasmette con gli occhi, Domenico. Pietro Trombetta, il suo papà, fu trucidato dal clan Belforte nel 1992, davanti al Liceo «Quercia» di Marcianise.

Un mese fa, il giudice Rosa De Ruggiero del tribunale di Napoli (su richiesta del pm Luigi Landolfi della Dda di Napoli) ha condannato - per quell’omicidio - Salvatore Belforte a 20 anni di reclusione e Giuseppe Della Medaglia a 30, entrambi condannati anche al pagamento del risarcimento civile, richiesto dal legale che segue la famiglia Trombetta, Michele Di Fraia. «Sono cresciuto senza mio padre, i miei zii mi avevano raccontato che era morto in seguito a un incidente stradale - racconta Domenico - poi, una volta, feci a botte con un mio amico delle Medie, quando frequentavo i Salesiani, e lui mi disse: tu sei il figlio di quel Pietro che è stato ammazzato. Corsi a casa chiedendo spiegazioni, mia madre fu costretta a raccontarmi tutto. Chiesi anche il perché? Nessuno fu in grado di rispondermi. E questa domanda mi ha perseguitato per 26 lunghi anni». La motivazione della sentenza del giudice Rosa De Ruggiero spiega il delitto descrivendolo come un «segnale» che Salvatore Belforte, il boss, voleva dare al «popolo» e, in particolare, alla politica di Marcianise.

Il 1992 fu l’anno della scarcerazione del capoclan, fino ad allora rinchiuso nella casa circondariale di Pianosa, dove però Antimo Piccolo riuscì ad andar via essendo trasferito a Novara. Quel trasferimento venne inteso da Salvatore Belforte come un «impegno» mantenuto da Pietro Trombetta, consigliere comunale a Marcianise con la delega alla nettezza urbana, nei confronti dei Piccolo, ma non c’è mai stato un riscontro. In qualche maniera, però, il boss si convinse che Trombetta fosse un nemico da eliminare, perché era impegnato in politica nel periodo in cui era egemone il cartello criminale Piccolo-Delli Paoli a Marcianise. E così, alle ore 9 e 30 del 21 novembre del 1992, gli scagnozzi della mafia marcianisana entrarono in azione. Pietro Trombetta, quel giorno, aveva appena avuto un colloquio con il sindaco Pietro Squeglia, docente del Liceo Scientifico «Quercia»; quando stava per risalire a bordo della sua Autobianchi Y 10, Pietro Trombetta fu colpito con sei colpi di una calibro 7, 65. Ebbe la forza di allontanarsi dalla vettura e di cercare riparo, ma finì a terra poco prima di vacare la porta del Liceo. «Ho voluto essere presente in aula a ogni udienza - conclude Domenico - volevo conoscere la dinamica. Questa sentenza per me è importante, ma nessuno potrà restituirmi mio padre. Ricordo pochi momenti con lui, al mare soprattutto».

Ma chi era Pietro Trombetta? «Un emergente politico sul cui conto non mancavano “illazioni” su presunte frequentazioni con esponenti della malavita - scrive il giudice - era vicino all’onorevole della Dc, Carmine Mensorio. Questa vicinanza favorì Trombetta, già medico dell’Usl, nel diventare docente di Medicina dello Sport all’Isef. Era anche presidente della Barilla Sud, squadra di calcio». Di fatto era incensurato. Solo che era cugino di un camorrista. Per la malavita di Marcianise andava eliminato, come una pedina. Di lui si è riparlato due anni fa: Salvatore Belforte, all’inizio della sua breve collaborazione con la giustizia, raccontò proprio dell’omicidio Trombetta. Le sue dichiarazioni furono corroborate dai verbali di Bruno Buttone. Il tutto, per restituire la verità a Domenico che ora, finalmente, può dire di avere ottenuto giustizia.
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