Troisi, il suo uso del napoletano un passaporto nazionale

Anche per i linguisti quella dell'attore fu una rivoluzione

Massimo Troisi
Massimo Troisi
di Nicola De Blasi
Giovedì 16 Febbraio 2023, 08:34 - Ultimo agg. 12:42
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A distanza di decenni il dialetto di Troisi e la sua recitazione ancora colpiscono gli spettatori, ma anche gli studiosi di linguistica, sollecitati anch'essi dal settantesimo compleanno che il mattatore avrebbe compiuto domenica prossima, anniversario che «Il Mattino» celebra con Non ci resta che Massimo, nuovo volume della collana «Ieri, oggi, domani», in edicola gratis con il giornale sabato e domenica.

Nel volume, con prefazione del direttore Francesco de Core, e curato da Titta Fiore e Federico Vacalebre ci sono storici pezzi dall'archivio del quotidiano firmati Pino Daniele, Rosaria Troisi, Diego Armando Maradona, Luigi Compagnone, Mario Martone, Francesco Rosi, Peppe Lanzetta, Gianni Minà, Vincenzo Salemme, Raffaele La Capria, Antonio Skármeta, Giuliana De Sio, Giuseppe Tornatore, Toni Servillo... E interventi inediti di Enzo Decaro, Valerio Caprara, Maria Grazia Cucinotta, Massimo Bonetti, Stefano Veneruso, Carlo Verdone, Goffredo Fofi, Ferzan Ozpetek, Erri De Luca, Ruggero Cappuccio, Giuseppe Montesano, Lello Esposito, Massimo Ranieri, Alessandro Siani, Ficarra e Picone, John Turturro...

Ma torniamo all'aspetto linguistico. In «Ricomincio da tre», per fare l'esempio più noto, il dialetto è sorprendente innanzi tutto per la sua presenza pervasiva in un film che imprevedibilmente fu subito campione di incassi in tutta Italia.

Le battute del protagonista, che tende verso l'italiano solo con gli estranei o per nascondere le emozioni, sono saldamente dialettali sia negli scambi con l'amico Lello, sia nelle interazioni con gli altri personaggi (Frank, Robertino, Marta). Nonostante la vicenda si svolga quasi per intero a Firenze (a Firenze!), il suo napoletano non suscita mai incomprensioni o equivoci nella comunicazione. Grazie anche alla mimica e ai gesti, in una situazione in cui le persone vogliono capirsi, il dialetto è pienamente funzionale, tanto che oggi alcuni spettatori napoletani quasi non ne colgono l'intensità e l'abbondanza, così come nel film non ne risentono i personaggi.

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Per esempio, Marta, interpretata da Fiorenza Marchegiani, non trova ostacoli linguistici in frasi come «Cunusci a Lello tu?», né nelle manifestazioni di gelosia di Gaetano: «Cioè, allora, pò essere pure ca 'o figlio è 'o suoio E isso se ne va in giro accussì senza problemi tutte cose e a me me vuo' mettere int''e guai» (e qui lo schiaffo di risposta sottolinea la perfetta comprensione); né nelle ipotesi sui nomi da dare al bambino, il quale, se si chiamasse Ciro, avrebbe un po' di autonomia («tene 'o tiempo 'e piglià nu poco r'aria»). È il contesto, insomma, che sostiene la comunicazione al di là della fonetica e della morfologia dialettali, senza contare che Troisi, quando serve, a beneficio degli spettatori, nelle sue ripetizioni a volte aggiunge alla parola dialettale quella in italiano. Proprio le ripetizioni si collegano alla sorpresa suscitata dal modo di esprimersi di Troisi: pause, incertezze, parole ripetute o smozzicate, frasi lasciate a metà, il continuo ricorso a cioè, riempitivi vari (come tutte cose), in una sintassi che sembra sempre sul punto di sprofondare nell'incomunicabilità («So' chiuso, i' so chiuso proprio, nun riesco a me», dice Gaetano a Frank, lasciando incompiuta la frase), ma alla fine conquista un suo significato, anche con sottintesi e silenzi carichi di senso. Questa minuziosa rappresentazione di un parlato spontaneo si modella sul pensiero interiore del protagonista. «Ogni film di Troisi è un viaggio in un arcipelago di monologhi, la visita guidata di un perpetuo delirio verbale», notava Tullio Kezich nel 1987, osservando che il modello molto a monte era «senza dubbio Eduardo, con le sue fonazioni stranite, le frasi interrotte, le occhiate in contrappunto, l'arabesco delle mani».

Con Troisi, però, l'incertezza dell'espressione non è solo sostegno della recitazione, ma porta in scena anche sé stessa, insieme con le inquietudini esistenziali, gli interrogativi, i dubbi giovanili dell'epoca e le tante contraddizioni legate a un ininterrotto discorrere su di sé, sugli altri, sui rapporti e su grandi temi («Dante nun 'a cunusceva veramente a Beatrice?»). Proprio una vistosa contraddizione, tra l'altro, evidenzia un amaro spunto comico, nel contrasto tra i discorsi tante volte ripetuti sulla necessità ideologica di non essere gelosi (è in italiano la frase detta per non scoprirsi: «Con tutto quello che abbiamo detto sulla gelosia») e la reazione istintiva di Gaetano che, parlando con sé stesso davanti allo specchio in bagno, smaltisce gli effetti di un colpo avvertito come un pugno nello stomaco. In questo e in altri casi la comicità non è affidata al dialetto, che infatti non serve a favorire il riso. Per Troisi il napoletano è piuttosto uno strumento verosimile che dà voce a insicurezze, disagi, emozioni al passo con i tempi e con la dimensione personale dei giovani che diventarono ventenni negli anni Settanta. Un film anche generazionale, dunque, come in altri modi «Ecce Bombo» di Moretti e «Un sacco bello» di Verdone, pure inclini a un tipo di parlato colloquiale e informale. Per questi aspetti, secondo le parole di Arbore, Troisi è «un napoletano moderno»: con lui anche il dialetto diventa specchio della modernità e si allontana dagli stereotipi, che nei suoi film sono appunto continuamente capovolti.

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