Il 1917 cento anni dopo, dal mito
​del popolo a quello della tecnica

Il 1917 cento anni dopo, dal mito del popolo a quello della tecnica
di Biagio de Giovanni
Martedì 7 Novembre 2017, 10:18 - Ultimo agg. 21:26
10 Minuti di Lettura
S’intitola «Che fine ha fatto il ‘17?» l’incontro in programma alle 15,30 a Napoli, presso l’Istituto italiano per gli Studi Filosofici, a Palazzo Serra di Cassano, a cent’anni esatti dal 9 settembre 1917, quando i bolscevichi formarono il governo rivoluzionario presieduto da Lenin come primo risultato dell’insurrezione di Pietrogrado, futura Leningrado. La discussione sarà introdotta da Silvio Pons, interverranno Biagio de Giovanni, Mario Tronti, Paolo Macry, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Frascani, Beppe Vacca, Aldo Schiavone e Umberto Ranieri. Il convegno è organizzato dalla Fondazione Mezzogiorno Europa e dall’Istituto italiano per gli Studi Filosofici. Proponiamo la riflessione di Biagio de Giovanni.


Che fine ha fatto il 1917? La grande rivoluzione bolscevica che ha occupato quasi per intero la storia del Novecento? Aveva per finalità la rivoluzione proletaria mondiale, l’instaurazione del comunismo, una società, come diceva Marx, dove ciascuno avrebbe ricevuto secondo i suoi bisogni e dato secondo le sue capacità. Una data che è stata tutto, nelle sue varie fasi: storia politica, mito e pensiero filosofico; trascinamento di masse in tutto il mondo; terrore politico nel senso che la verità era una, e tutto ciò che le si allontanava poteva diventare crimine politico; lotte spietate tra gruppi dirigenti che pur nascevano dallo stesso ceppo; suggestioni, influenze decisive sulla struttura e sul pensiero del secolo. Una data che ha stimolato dedizione totale o rigetto totale e milioni di combattenti per la sua causa, ma tanti morti per persecuzioni di massa interne alla stessa società russa dove quel principio politico si era installato. Insomma, un gigantesco crogiuolo in cui si è svolta una vicenda dai tanti volti, dai molteplici effetti, poi ripiegata su se stessa, e conclusa.

Tutto da un’unica fonte, dal contenitore Russia, un volto rivolto verso l’Asia, l’altro verso l’Europa, una Unione sovietica in movimento, nelle varie fasi, in Europa, in Asia, in Africa, nell’America del Sud, dappertutto. Con partiti che hanno contribuito a fare la storia dei paesi dove si erano insediati, e si pensi, tra tutti, all’Italia. Un richiamo espansivo intorno al quale, lungo il Novecento, c’è stata una grande lotta non solo politica e militare, ma anche filosofica: vicinanze, lontananze da quella realtà; illusioni, delusioni; fascinazioni che nei principii del comunismo (non tanto e non solo nella realtà dell’Unione sovietica) vedevano l’irruzione, finalmente, di un principio di redenzione della storia. Penetrata dall’idea che gli ultimi, gli esclusi fossero il principio di quella redenzione; una frattura nella continuità storica, la prima vera frattura nella storia dell’umanità, alcuni filosofi dicevano. La storia redenta, nientemeno, dal potere! Quando poi il potere più greve stava diventando tutto!

Che cosa è veramente finito di tutto questo? In un mondo dove la quasi unica grande traccia rimasta -nel senso di stati che si dicono, cautamente, eredi di quella storia- è la nuova Cina (che rivendica come vero atto di nascita la propria rivoluzione), la quale però del comunismo ha mantenuto l’unità anche dura della decisione politica, un sistema retto da un solo partito, ma non la volontà espansiva di una idea che è stata il vero motore novecentesco di quella storia. Il «made» in Cina, non la Cina «comunista»: esportazione di cose non di idee, insomma, e sullo sfondo, più il conformismo ascetico di Confucio che la spinta produttivistica di Marx.

La mia idea è che, con il 1989, è finita l’ultima grande filosofia della storia che ha provato a farsi realtà politica, storica, umana. Il 1989, la data della caduta verticale di un sistema politico, venuto giù come un gran castello di carta, la data della fine ufficiosa dell’Unione sovietica materializzatasi ufficialmente qualche anno dopo: si era conclusa l’ultima grande filosofia della storia, dicevo. Non sembri un vezzo da filosofo questa osservazione, per me essenziale. Voglio dire che si è esaurita l’idea che immaginava la storia governata dalla «ragione», incasellata in previsioni, in finalità, in piani, in anticipazione delle sue linee di tendenza, in scansione dei suoi tempi e delle sue date, e che un’avanguardia di acciaio potesse avere questo immenso, incontrollato potere sul suo corso. Una storia che si era costruito il proprio mito, diventato, nel progresso delle cose, senso comune, un mito che ha retto in una parte significativa dell’intellettualità europea, assai presente pure nella coscienza dei dirigenti bolscevichi più colti e occidentalizzati, e che si raccontava così: 1789, la rivoluzione francese, la rivoluzione borghese, la libertà puramente politica, uguaglianza nel cielo della politica, come scrisse Marx. 1917, l’erede eretico di quella rivoluzione che la portava a compimento, liberazione sostanziale di tutti, non più solo formale e politica, ma economica, sociale.

La fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il capitalismo in angolo, vivendo, esso, proprio sul plusvalore estratto dal lavoro vivo umano. Come se la storia si muovesse secondo un piano sempre più perfetto, progressivo, pur entro le grandi discontinuità, con un risultato che doveva significare fine dello Stato, società autoregolata. Qualcuno azzardò: fine della storia, almeno come fine del conflitto di classe e in generale del conflitto tra gli uomini. La costruzione di un nuovo statuto dell’umanità, da costruire con il materiale di un uomo nuovo. Grandissimo mito, sottilmente o rozzamente elaborato in tante forme, che animava tutto, da certe filosofie al senso comune di massa, e che ha tenuto insieme un pezzo di umanità, un pezzo grande di storia, e quasi l’indicazione di un destino.
Perciò fu cosi difficile, per molti, staccarsi da quel mito. Il quale ha resistito, per milioni di uomini, anche quando le dure repliche della storia, o più semplicemente l’evidenza dei fatti, ne mettevano in luce le contraddizioni, le angherie che sgorgavano da un potere diventato crudele, ossessivo, fino alle stagioni del Terrore, che peraltro erano nate subito nella Russia sovietica. Non c’era stato bisogno di attendere Stalin, anche se con lui esse si estremizzarono fino alla distruzione di interi gruppi dirigenti che pure avevano vissuto e diretto la rivoluzione: la rivoluzione mangiava se stessa, restava viva e potente solo la costruzione dello Stato sovietico. E non era certo poco.

Tutto questo non contava, per molti, perché sullo sfondo restava fermo il fine generale, quello che ancora non si vedeva, e che doveva passare per questi sacrifici, per quella distruzione di gruppi umani considerati di ostacolo per la realizzazione di quei fini, serrati in una volontà di ferro. Sullo sfondo, restava la finalità ultima, e per quella tutto si poteva sacrificare, non c’era più nulla di sacro da rispettare, tanto meno il povero, anonimo e statistico, individuo. Questa idea della storia è finita tra le macerie del Muro di Berlino. E la globalizzazione che ne è seguita ne è la definitiva smentita, ora leggero, ora aspro il mondo globale, ma mai come ora si è capito che il mondo non si fa chiudere in un progetto, è diventato sempre più difficile dire che cosa prepari il dispiegarsi illimitato della sua, certe volte cieca, energia. In questo senso il 1917 ha concluso la sua traiettoria. Nella storia concreta ci sono ancora molte sue eredità – banale dirlo: anche la storia d’oggi non sarebbe così com’è senza quella data -, ma manca il principio che tutto tenne insieme. Il comunismo, come fenomeno storico che ha mobilitato milioni di uomini e che aveva addirittura indicato un destino della storia, ha concluso la sua corsa.

Come era stato possibile tutto questo? Non va dimenticato lo sfondo di quegli eventi, e di quel 1917. Quello sfondo spiega molte cose. Come è nata quella data fatale? E si connette o no ad altre date ugualmente fatali, nate in un giro di anni relativamente vicino? Nel Novecento, dove incominciarono a scorazzare poteri totali, il secolo più metafisico che l’umanità europea abbia vissuto. Tanti fenomeni si accumularono. La prima grande globalizzazione tra XIX e XX secolo, la prima tendenziale mondializzazione del commercio, cui si contrappose l’arcigna risposta dei nazionalismi. Il 1914, la data di inizio della prima guerra mondiale, che nacque anche dal contrasto ora indicato; milioni di uomini, soprattutto di contadini che, giunti dalle solitudini dei loro paeselli, si trovarono affratellati nelle trincee, «masse profonde di carne viva», come scrisse Gramsci, e si trasformarono in soggetti della politica.

L’irrompere di grandi moltitudini per la prima volta sulla scena della storia si riversarono nelle società dopo la guerra.
L’emergere di una vitalità senza forma e controllo – le filosofie della vita lo registrarono in varie direzioni -, di un potere che si volle aperto a questo immenso e inedito brulicare di umanità, e che sfociò anche in tragiche esperienze, in un opaco corto circuito tra masse e potere. Quando d’improvviso masse sterminate entrarono, da vari ingressi, sulla scena della storia, chiedendo potere, facendo valere nella politica la propria condizione esistenziale, tutto mutò e il potere rinunciò ai propri equilibri interni. Decadde l’equilibro liberale, di un liberalismo peraltro ristretto, del XIX secolo. Ma soprattutto giunse la guerra, e senza la guerra nessun 1917 ci sarebbe stato. Lenin potè mobilitare grandi moltitudini (che però non c’erano nell’assalto al Palazzo d’inverno) perché promosse la pace separata con la Germania. Il colpo di mano dei bolscevichi, la loro vittoria in un paese arretrato, contro tutte le previsioni di Marx, era stato vincente utilizzando la prospettiva della pace e della terra ai contadini nello sterminato continente Russia, cosa che i capi della precedente rivoluzione del febbraio, i capi di un potenziale soviet democratico, non avevano inteso. Un colpo di mano, quello di Lenin, convinto di avere dalla propria parte il corso della storia, e in certo modo era così’, nel senso che esso nasceva con il suo mito incorporato, il primo nucleo della rivoluzione proletaria mondiale, finalmente una battaglia per la libertà sostanziale degli uomini e per la fine del capitalismo, la bestia ferita.

La Germania doveva essere, subito dopo quella russa, l’altra grande rivoluzione proletaria, ma lì nel 1919 già tutto era fallito. La rivoluzione si fermò così ai confini della Russia e lì si difese militarmente dall’assalto congiunto interno ed esterno. Ma questo confine non si disegnò per il trionfo, altrove, del liberalismo e della democrazia, o solo perché, ed è vero, la classe operaia di Germania restò legata allora alla sua socialdemocrazia, giacché il potere totale si affacciò anche nell’occidente europeo, negli anni successivi, in altre forme. Nel 1922, il fascismo in Italia, nel 1933 il nazionalsocialismo in Germania e nel 1936 il franchismo in Spagna. Non richiamo queste date per frettolosi confronti sui totalitarismi del secolo, ma solo come ulteriore corollario alle cose dette. Il Novecento di ferro e di fuoco si presenta come un secolo ultimativo per il destino d’Europa, in un corto circuito tra filosofia e politica. Il potere si fece in molti stati totale, in un gioco estremo di azioni e reazioni. Tra masse e potere l’incontro divenne tragico. Poi, le alleanze della seconda guerra mondiale – dopo l’intesa tra Hitler e Stalin del 1939, da non dimenticare - ricollocò l’Unione sovietica, sotto attacco nazista, al centro delle politiche e geopolitiche mondiali, fino al crollo, quando vennero al pettine i nodi originari. Il potere implose, crollato come un castello di carta. Irriformabilità del comunismo, nonostante Gorbacev. Irriformabilità di un sistema che aveva separato uguaglianza e libertà, negando infine sia l’una sia l’altra.

Certo, il 1917 ha posto al mondo il tema della libertà sostanziale, e pur negandolo nel modo più radicale (mai tanta distanza ci fu tra potere e vita come nell’Unione sovietica) lo ha fatto penetrare, al di là di sé, nella storia. Un’ansiosa richiesta che non si muove mai in un confine preciso, che ha messo in tumulto sentimenti, rompendo il confine tra vita e storia e tra vita e politica. Che resta dunque di quella data fatale? Nulla come punto d’avvio di una filosofia della storia, ma c’è chi dice: senza di essa c’è un vuoto di prospettive, un vuoto di futuro. Nessuna promessa più per il destino dell’uomo. Nessun racconto più sul destino dell’umanità, nessuna rivoluzione politica in vista. La storia destrutturata. Altri dicono: meno male, ogni racconto troppo organico e totale finisce male, la storia si volge da un’altra parte, e la rivoluzione porta il Terrore, si è visto. Però il vuoto di futuro crea una assenza. Ecco, forse si può dire che il 1917 «c’è» nella sua assenza, nel vuoto di futuro che ci sta davanti in un presente disseminato di volontà puramente individuali. Nessun rimpianto per ciò che doveva finire, avvitato nella sua finale, mortale burocratizzazione, ma la semplice costatazione dello stato delle cose. Luci e ombre si accavallano. Luci nella fine dei totalitarismi, l’inaccettabilità di milioni di morti nelle società militarizzate, diventate campi di concentramento anche senza filo spinato. Ma questo non implica che la storia corra verso il meglio, che abbia vinto la sintesi di democrazia e libertà, che magari sia finita la storia, democrazia+mercato, come si pensò. Nello spazio del mondo, irrompono forze e poteri che ci fanno ricordare quanto tragica sia la storia dell’uomo, quanto drammatica la soglia che fa da confine tra vita, politica e storia. Oggi, nell’era della rivoluzione della Tecnica, insieme benefica e problematica per l’umanità, si vive una situazione opposta, l’esacerbato individualismo di tutti e, come controfaccia, il ritorno di ineguaglianze e di fondamentalismi e di guerre estreme, per ora ancora localizzate. Non so dove tutto questo condurrà, ma so che non ci sono rimpianti per una storia finita. L’umanità dovrà praticare altre strade, non so quali, ma non c’è da riprendere un filo interrotto, siamo in un altro tempo della vicenda umana. Insomma, dimenticare il 1917.
© RIPRODUZIONE RISERVATA