«L'inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene», il nuovo libro di Alessandro Barbano

Nell'universo parallelo dell'antimafia l'obiettivo è massimizzare, affliggere il più possibile, aprire il maggior numero possibile di procedimenti e mettere sotto processo sine die

Alessandro Barbano è condirettore di «Il Corriere dello Sport»
Alessandro Barbano è condirettore di «Il Corriere dello Sport»
di Massimo Adinolfi
Giovedì 1 Dicembre 2022, 11:00
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Forse converrebbe leggere non una ma tre volte l'ultimo libro di Alessandro Barbano, giornalista di lungo corso e condirettore di «Il Corriere dello Sport», già direttore de «Il Mattino» e vicedirettore de «Il Messaggero» (L'inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene, Marsilio, pagine 245, euro 18), e spiego perché. La prima volta può servire per tentare, al termine della lettura, un esperimento mentale: cosa sarebbe stata la storia politica italiana degli ultimi trent'anni senza le cronache giudiziarie? La seconda volta può servire per interrogarsi sulle vicende della seconda Repubblica, al fine di chiedersi cosa sarebbe l'Italia, oggi, se la legislazione antimafia fosse stata cancellata da un pezzo. A cosa potrebbe servire la terza lettura lo dico dopo.

La prima lettura non va ancora al cuore del libro. I cui capitoli trattano di commissione Antimafia e legislazione speciale, agenzia per i beni sequestrati e confiscati e ergastolo ostativo per i mafiosi e insomma tutto l'insieme di norme e istituzioni, indagini e processi messo in piedi in nome della lotta alla mafia.

Però disegnano i lineamenti di una concrezione di potere consolidatasi a ridosso dell'antimafia, nella saldatura fra magistratura e mass media, con forti capacità di condizionamento della politica, forte presa sull'opinione pubblica e grande capacità di orientarne umori e giudizi (più umori che giudizi, in verità). Come altrimenti potrebbe «istruirsi e svolgersi per anni, in una democrazia liberale, un processo fondato su nulla, come quello sulla presunta trattativa tra Stato e mafia»? La risposta di Barbano che del processo richiama i punti salienti sta appunto nel modo in cui si sono intrecciati nel nostro Paese le tre forme del discorso pubblico contemporaneo: il politico, il giudiziario, il giornalistico. Intreccio perverso, che ha travolto le fragili strutture dello Stato di diritto e l'insieme di garanzie a cui dovrebbe ispirarsi la sua architettura. 

La seconda lettura è quella che motiva il titolo del libro, richiamato anche nelle conclusioni. L'antimafia è ormai un inganno, perché non è vero, a giudizio dell'autore, che la «macchina dell'eccezione» serva davvero a combattere la mafia. La giustificazione per gli usi, e soprattutto i soprusi, commessi in nome della lotta alla mafia starebbe in ciò, che senza di essi senza le leggi emergenziali, senza l'estensione delle misure di prevenzione, senza l'incarognimento del diritto penale non si sarebbe potuto condurre con efficacia l'azione di contrasto ai fenomeni di criminalità organizzata (e, per estensione, a tutta una serie di reati contro la pubblica amministrazione che negli anni hanno finito per ricevere lo stesso, abnorme trattamento). Alla fine del libro, il giudizio di Barbano è netto: «La trasparenza amministrativa e un clima civile di fiducia nelle relazioni pubbliche sono rimedi antimafiosi, assai più delle retate e dei maxi processi destinati a finire parzialmente in fumo». Difficile dargli torto. In ogni caso, non sembra proprio che, a forza di leggi speciali e provvedimenti eccezionali, si sia estirpato il cancro mafioso. La mafia spara meno, è vero, ma non per questo sembra diminuita la sua presa sulla società italiana. 

 

Ma quand'anche così fosse, resterebbe l'ultima lettura. Che per mio conto è quella decisiva. Perché se il fine giustifica i mezzi, e i mezzi sono mezzi palesemente illiberali, la democrazia ne esce sfigurata. E dunque ecco il punto: quand'anche fosse vero che forzando le regole e derogando ai principi l'azione di contrasto sarebbe più efficace, bisognerebbe dire di no, e preferire la civiltà giuridica alla barbarie. In cui si precipita, e Barbano lo racconta, tutte le volte in cui si manda assolta una persona in sede penale, però gli si confiscano i beni e gli si rovina la vita; tutte le volte in cui si rinuncia ai cardini della tassatività delle fattispecie di reato e della presunzione di innocenza; tutte le volte in cui è tradita la funzione rieducativa della pena; tutte le volte in cui le sentenze fanno spazio a ricostruzioni storico-politiche, ideologicamente orientate; tutte le volte in cui saltano i confini fra morale, politica e diritto. Il diritto penale dovrebbe intervenire in ultima istanza, minimizzando l'afflittività delle norme: così almeno insegna il maggior filosofo del diritto che abbiamo oggi in Italia, Luigi Ferrajoli. E invece, nell'universo parallelo dell'antimafia, accade il contrario: l'obiettivo è massimizzare, affliggere il più possibile, aprire il maggior numero possibile di procedimenti e mettere sotto processo sine die. E lasciare infine che tutta questa materia tracimi nel dibattito pubblico, imponendo legittimazioni in via di fatto dove mancano in punta di diritto. Le storie che il libro raccoglie storie, a volte, da far accapponare la pelle, che grondano di dolore trattenuto sono la più eloquente dimostrazione che la battaglia civile sposata da Barbano con questo libro, affinché l'eccezione venga «dismessa, smontata e rottamata per sempre», ha troppe testimonianze e troppe ragioni, perché le si possa mettere a tacere. Questo libro ne parla, ed è dovere rispondere. 

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