Alicia Giménez-Bartlett, parlo di me: «Barcellona e Napoli simili? Cercare l'identità nel calcio è un argomento che fa paura»

La scrittrice spagnola di Pedra Delicado

Alicia Giménez-Bartlett
Alicia Giménez-Bartlett
di Angelo Carotenuto
Sabato 28 Gennaio 2023, 09:02 - Ultimo agg. 29 Gennaio, 10:59
7 Minuti di Lettura

Quando sulla scena arrivò Petra Delicado, ruppe gli schemi del noir. Nel mondo dei commissari e degli ispettori, si affacciava una donna, una femminista, modi spicci, infallibile, sessualmente disinvolta. Alicia Giménez-Bartlett ha raccontato discriminazioni e pregiudizi attraverso le sue indagini, tredici titoli diventati una fortunata serie tv con Paola Cortellesi. Ora con il nuovo romanzo uscito sempre per Sellerio, la scrittrice catalana scompagina un nuovo cliché.

La presidente è una storia in cui fanno luce Berta e Marta, due giovani poliziotte, sorelle, un caso affidato a loro nella convinzione che non sapranno cavarsela, con i loro pochi anni. È così che con Giménez-Bartlett, da Barcellona, finiamo a parlare di generazioni.

Perché diciamo sempre così male dei nostri giovani?
«Li consideriamo inutili e superflui, dall'alto della nostra età. Non sono così, ovviamente. Stanno vivendo la loro vita in un passaggio epocale. Hanno le loro vocazioni professionali come le abbiamo avute noi, ma spesso scoprono che sono un'illusione dentro un sistema del quale noi conosciamo i difetti, con la nostra esperienza. Mi sembrava che queste due sorelle potessero rappresentare l'enorme distanza che esiste tra le loro speranze e quanti non sono disposti a cedere il potere, o nemmeno aprire le porte. È una generazione più individualista della nostra. Mi pare le manchi un senso forte di comunità».

C'è una responsabilità della generazione precedente?
«Non lo so. Mi pare non sia una questione di educazione, o non solo, ma di tecnologia. Sono ragazze e ragazzi finiti dentro una mutazione che nessuno aveva previsto, il digitale, le reti sociali: tutto questo ha avuto un'influenza enorme.

Vengono sottovalutati e tenuti fuori da incarichi importanti, con la scusa che non hanno altre capacità, se non quella di stare attaccati al telefono».

Berta e Marta sono le nuove arrivate nel suo universo di personaggi. Petra è la più celebre, ci sono state Tona, Paula, Susy, Sara, Nelly. Tutte donne bisillabe. Come sceglie i nomi?
«Oddio, non ci avevo mai fatto caso. Forse perché cerco un nome che resti in mente, breve, che suoni rapido, come in genere ci regoliamo quando chiamiamo un cane. Qualche volta uso la guida telefonica, a volte cerco solo un bel suono, come nel caso di Fermín Garzón. Per Marta e Berta avevo bisogno di un'allitterazione, due nomi che si somigliassero».

Nella sua scrittura i dialoghi hanno un ruolo rilevante. Come li prepara?
«Non ho una gran memoria visiva, posso dimenticare il volto di una persona, le strade di una città che non visito da tanto, ma credo di avere una capacità abbastanza buona di ricordare le voci e quel che sento dire, dagli amici, da mio marito, anche dagli sconosciuti in strada. Parlo poco, ascolto molto. Mi piace sentire cosa dice la gente, come parlano le persone. Per riprodurre i dialoghi dei giovani, sono stata ore e ore sui mezzi pubblici. Qualche volta mi affido all'ispirazione, altre volte parlo con chi fa un certo lavoro. Ma non tutti i carabinieri si esprimono alla stessa maniera, esistono differenze di cultura individuale e distanze sociali. L'altro giorno una poliziotta di trent'anni mi ha chiesto come avessi fatto a riprodurre così fedelmente certe sfumature del loro linguaggio legate alle gerarchie. È la migliore recensione che abbia mai ricevuto».

Un'altra accusa mossa ai giovani è di leggere poco. Prima di fare la scrittrice, lei è stata insegnante. Come si trasmette l'amore per i libri?
«Ho visto padri esasperati entrare a scuola e implorare l'aiuto delle professoresse. La soluzione è semplice. Basta prendere un libro, sedersi e leggere di fronte ai propri figli. Al ristorante mi capita di incontrare genitori che per tenere buoni i bambini gli mettono un piccolo schermo tra le mani. Io credo nella fisicità del libro e nella sua seduzione. A un adolescente non si deve proporre per forza un classico. Ci arriverà da solo. In molte case gli scaffali dei libri sono sistemati in alto, per tenerli fuori dalla portata dei bambini. Non lo farei. I piccoli hanno troppi divieti. Ne basta uno: le pagine non si strappano».

Cosa correggeva nei temi dei suoi studenti?
«Non me lo ricordo più. Credo di essere stata un'insegnante che provava a ispirare, non a correggere. Ricordo di aver fatto cose insolite. Una volta assegnai come compito la scrittura di una piccola storia con lo stile di Dante. Sono cose che i ragazzi fanno, e fanno bene. Ho sempre guardato più al contenuto che allo stile. Se una storia è buona e la lingua meno, a quello studente devi dirgli che è stato un genio. I bravi insegnanti sono quelli che trasmettono il piacere. Se non è enorme dentro di te, com'è possibile che tocchi i ragazzi?» 

Lei che storie inventava da bambina?
«Storie assurde. Deve essere quella che chiamano vocazione. Non voglio ricordarle. Certe volte chiedevo a mio padre di scriverne. I miei genitori amavano leggere. In casa mia c'erano tutti i classici spagnoli e le ultime novità, ma molte traduzioni non esistevano, certi titoli americani non si trovavano. Era la Spagna di Franco, la dittatura esercitava una censura enorme sui libri. Era evidente anche dalle traduzioni».

Nella traduzione italiana di Gli onori di casa, in copertina c'è Pulcinella. In che cosa le pare si somiglino Napoli e Barcellona?
«In qualcosa, non in tutto. Il mare, il gusto di vivere in strada e di incontrare gli amici all'aperto, l'empatia. Ma Barcellona è diventata un mostro troppo grande, Napoli conserva una dimensione più piccola che amo molto. È un valore da custodire. Ha un volume di visitatori più gestibile. Quando le città crescono in modo poco sostenibile, cambiano volto. È successo a Barcellona. Le Olimpiadi del 92 sono state un buona occasione per ristrutturare la città, ma interi quartieri sono stati stravolti. Barceloneta era un borgo popolare di pescatori, senza importanza. È diventato un barrio carissimo, un piccolo appartamento costa in modo assurdo».

Sia Barcellona sia Napoli sono legate al calcio. Lei crede che sia uno strumento per la rappresentazione dell'identità di una città?
«Per molta gente lo è, ma che cosa è l'identità? L'identità di una città non esiste. Esiste un conglomerato di tante cose. È un argomento che mi fa molta paura. In nome dell'identità sono state commesse cose terribili. Il calcio è importante perché è un gioco. Cercare la patria e l'identità nel calcio mi sembra da matti. Eppure succede. A Napoli il calcio è un fattore incredibile, lo so. A Barcellona lo vedo. Io credo che non dovremmo dargli troppa importanza».

In un'intervista ha detto di aver amato The Young Pope di Sorrentino. Che cosa le è piaciuto?
«Non sono affezionata alle serie, non ho tempo di guardare la tv, ma amo Sorrentino come regista, le sue immagini, il suo punto di vista, i suoi colori. Mi è piaciuta la riflessione sul potere».

È uno dei suoi temi preferiti: il potere al femminile. C'è una differenza col potere maschile?
«Quando un individuo detiene una forma di potere, che sia uomo o donna, il suo comportamento è condizionato. Le tentazioni sono le stesse. Esercitano una forza di attrazione sulla parte più oscura delle persone. Nell'ultimo romanzo, c'è una sindaca di Valencia ispirata a una figura realmente esistita, molto autoritaria. Una donna al governo è prima una politica e poi una donna».

È quel che rimproverava qualche anno fa a Virginia Woolf in Una stanza tutta per gli altri. Ha fatto pace con lei?
«(RIDE) Era la storia della relazione con la sua domestica, di un'emancipazione che nella teoria della Woolf appartiene a tutte le donne. Solo che per lei la differenza sociale era più importante del suo femminismo. Ero furiosa all'epoca, ma sì, ho fatto pace con Virginia Woolf».
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA