Andrea De Carlo e il ritorno di Jack in missione per conto di Dio

Io, Jack e Dio, il racconto di un'amicizia intensa e piena che esplode in una febbrile trama d'amore

Andrea De Carlo e il ritorno di Jack in missione per conto di Dio
di Generoso Picone
Sabato 12 Novembre 2022, 09:00 - Ultimo agg. 13 Novembre, 10:01
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Mina e Jack sono stati amici e complici come possono esserlo due ragazzini che s'incontrano in estate sulla spiaggia di Lungamira, la riviera adriatica dei nonni, e lì stringono un patto di fedeltà, solidarietà e sincerità così vero da poter attraversare le diverse esperienze, i rispettivi amori, le separazioni e i cambiamenti, la lontananza tra l'Italia e l'Inghilterra, ogni inciampo dell'esistenza. Poi, a un certo misterioso punto, l'interruzione dei rapporti. Fino a una mattina nella chiesa di San Celestino dove Mira riconosce il suo Jack nel frate che sta tenendo l'orazione funebre per Brusko, il rocker strampalato e di successo diventato intanto suo compagno, schiantatosi nel tragico incidente con il deltaplano in cui lei è sopravvissuta.

Sono passati sette anni dall'ultima volta, Mira è ora una illustratrice di talento che ha scelto di trasferirsi proprio nella villetta dell'infanzia a Lungamira e si ritrova presa in una vertigine, teme un'allucinazione, forse un travestimento anche perché Jack invece di un elogio in memoria del cantante pronuncia un discorso di critica irriverente e radicale da apparire quasi oltraggioso, se non fosse decisamente fondato.

Qualche mattina dopo riceve una telefonata, sul diplay compare il nome di Jack, Jack Richards che è un frate del vicino convento di San Firmiano. Le chiede di rivedersi.

Da queste sequenze prende le mosse la storia che Andrea De Carlo narra in Io, Jack e Dio, il suo nuovo romanzo (La nave di Teseo, pagine 381, euro 20). È il racconto di un'amicizia intensa e piena che esplode in una febbrile trama d'amore, intrecciandosi con una complicata e faticosa conquista di senso della vita.

«La storia di due persone che hanno bisogno l'una dell'altra per essere pienamente se stesse», si potrebbe dire utilizzando la definizione adoperata da De Carlo per Due di due, il titolo del 1989 che incrociando ansie di cambiamento individuali e tensione all'utopia collettiva ha stabilito una sorta di canone letterario di riferimento generazionale e, per De Carlo, un efficace paradigma narrativo. Qui, in Io, Jack e Dio, si riconnette a quel territorio. La vicenda di Guido e Mario che allora era alimentata dalle speranze e dalle delusioni nella stagione del 68 milanese finendo per consegnare un punto di osservazione importante sull'Italia del tempo, può essere letta come una sorta di capitolo successivo che insiste nel dettagliare i temi dell'inautenticità, della perdita di senso, della massificazione dei pensieri, dell'avvilimento del discorso pubblico, del degrado del paesaggio. 

In mezzo, a un trentennio di distanza, c'è stata la realtà raccontata da De Carlo in Di noi due, in Di noi tre, in Leielui fino al Il teatro dei sogni, che scandiscono un percorso dove le relazioni sentimentali - d'amicizia, d'amore, di incontro, di scontro si delineano in una direzione di intensità quasi ontologica, fanno emergere i caratteri costitutivi dei protagonisti e scorrono imbattendosi in una realtà esterna svuotata di significato e riempita di mistificazioni. Sono storie che proprio in questo contrasto rendono radicale e spietato lo sguardo critico e alzano la temperatura della pagina, nella contrapposizione tra un microcosmo valoriale da difendere e la globalità imperante di una modernizzazione sregolata.

È quanto accade in Io, Jack e Dio. De Carlo fa i conti con le mistificazioni e le strumentalizzazioni determinate dalle cosiddette dittature celesti imposte dalle «multinazionali» della religione. Jack, nei sette anni in cui è scomparso dall'orizzonte di Mira, è entrato a far parte della comunità raccolta nel convento di San Firmiano attorno alla figura carismatica e ben tratteggiata di fra Maximin, già francescano e uscito dall'ordine per coltivare e diffondere l'eresia disvelatrice degli inganni in nome di ogni Dio. Insieme a fra Kaspar ci sono fra Eduardo, sor Kirsten e sor Akilah, la quale ha doti di preveggenza delle catastrofi che sanno di miracoloso quanto le capacità taumaturgiche esibite da fra Jack. La loro missione è di «sbucciare la cipolla della religione», di liberare ognuno dall'idea di dipendere da un super-uomo, di combattere i crimini del pensiero, di aprire le finestre che si hanno dentro. Di cercare la verità: che non si trova nelle risposte ma nelle continue domande. 

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È l'utopia di sgretolare le certezze e smontare le illusioni declinata da fra Maximin in un'aura alla Ivan Illich, il prete e filosofo che predicava la convivialità come progetto di libertà e felicità e incitava a de-religionizzare la possibilità di credere. È una parola che va a cadere nell'epoca delle passioni tristi descritte da Miguel Benasayag e Gérard Schmit e impatterà con una reazione dura e crudele. De Carlo ne fa una critica aggiornata alla contemporaneità, condotta con una scrittura che nella descrizione apparentemente soltanto della superficie dei fatti riesce a penetrare nella loro profondità e così a coglierne gli elementi: la dote che gli riconobbe Calvino all'esordio di Treno di panna nel 1981 a cui lui mostra di essere fedele. 

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