Antonia Arslan e il destino di Avghanì: «Quando il male decide il destino di un popolo»

«Le donne hanno un ruolo cruciale: tirano fuori quando necessario risorse che non immaginano nemmeno di possedere»

Antonia Arslan
Antonia Arslan
di Donatella Trotta
Giovedì 15 Dicembre 2022, 12:00
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Un giallo storico. Avvincente come un thriller psicologico d'antan. Evocativo come un romanzo di formazione e d'amore. E struggente come una saga familiare, dipanata in una narrazione che intreccia le tappe di una personale quest con il realismo magico delle atmosfere plurisensoriali di una vicenda armena: ambientata un secolo fa tra la cosmopolita Kharpert, la piccola città culla di cultura e convivenza tra etnie diverse annidata nel cuore dell'Anatolia ai tempi dell'Impero ottomano e le impenetrabili montagne circostanti, dimora dei clan di pastori guerrieri curdi. È il nuovo libro della scrittrice e studiosa di origini armene Antonia Arslan, Il destino di Avghanì, pubblicato da Ares: una poetica storia natalizia che ricostruisce un tassello perduto del mosaico del genocidio del popolo armeno. E non solo. La protagonista, Aghavnì, è una madre di 23 anni che un giorno di maggio del 1915 a due settimane dall'inizio del Metz Yeghèrn, il «Grande Male» che sterminò 1 milione e mezzo di armeni per mano turca esce ignara di casa con il marito Alfred e i loro figli, di 6 e due anni, per scomparire nel nulla. Un mistero: che fine hanno fatto? Sono stati uccisi, rapiti, o sono fuggiti? Vane le ricerche: della famiglia si perdono per sempre tracce e ricordo, sbiadito dal tempo e cancellato dai drammatici eventi successivi. Accennati in pagine intense di elegante nitore stilistico, con un racconto avventuroso che fonde dolore e speranza, crudeltà, paura e coraggio, odio e compassione, fino a sublimare persino la morte in una rinascita inattesa: grazie a un presepe segreto di un Natale diverso. Capace di trovare la strada che «c'è sempre da un cuore all'altro», come scriveva in La bellezza sia con te (2018) la Arslan, vincitrice nel 2017 del Premio Matilde Serao, dedicato alla fondatrice del nostro giornale. 

Come nasce questa storia?
«Da una vecchia foto di famiglia di tre ragazze: tra loro, Aghavnì.

La custodiva negli Stati Uniti un mio cugino ritrovato che, letta La masseria delle allodole, mi chiese di fargli visita, nel 2012. È da allora che l'ignoto destino di Aghavnì si è depositato come un grumo in me. Mi è risuonato dentro. Mi ha chiesto di essere svelato. Una notte l'ho sognata: come una Colombella questo significa il suo nome con il frullo delle sue ali lievi ha voluto essere narrata. E con una rigorosa indagine storica ho allora alzato il sipario calato sulla sua scomparsa lavorando di fantasia sull'ipotesi, realistica, del rapimento».

Una storia se non la racconti muore, diceva Kafka. Lo ha ribadito la senatrice Segre per la Shoah. Con Aghavnì,lei va alle radici della banalità del male, e induce a riflettere...
«Le persone, nella normalità, non sono cattive. Il Grande Male attecchisce perché ci si fa trascinare dalla demonizzazione di un gruppo etnico fino ad allora vicino con un veleno instillato da una sistematica propaganda che cambia lo sguardo su un popolo, persino sui suoi bambini, visti come pericolosi, de-umanizzati fino al loro annientamento. Ma alla base della demonizzazione c'è, spesso, anche un altro fattore».

Quale?
«L'avidità. E l'invidia sociale, alimentata come una fiamma da gruppi egemoni che autorizzano ogni efferatezza contro traditori e cattivi. È successo con gli armeni, razza maledetta e condannata senza aver capito ciò che accadeva; ed è capitato, poco dopo, con la Shoah. Anche gli ebrei erano impreparati: se avessero avuto consapevolezza che la nuova modalità di sterminio sistematico orchestrato dall'alto, sperimentata con l'olocausto armeno, poteva accadere di nuovo (lo intuì, inascoltato, già dal 1922 Raphael Lemkin, l'inventore del termine genocidio), forse la Storia sarebbe cambiata».

E invece, la storia si ripete: impossibile non pensare all'attuale massacro in Ucraina. Nel libro ritorna la forza debole delle donne e persino il ruolo dei bambini, piccoli ma di grande saggezza, per la speranza.
«È vero. Le donne, duttili custodi delle abitudini, creature portatrici di vita e di buonsenso che sa adattarsi ad ogni circostanza, hanno un ruolo cruciale: tirano fuori quando necessario risorse che non immaginano nemmeno di possedere. Un messaggio eloquente per tutti coloro che straparlano, oggi, di guerra: bisognerebbe imparare dalle infanzie, custodite dalle madri, per tutelarle nella loro sopravvivenza. Che anche in situazioni estreme, di solitudine, rivela tempre insospettabili, capaci di resistere. In fondo, è il messaggio sempre rinnovato dell'incanto del Natale cristiano». 

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