Boris Pahor, 106 anni nel segno della memoria: «Ai giovani dico: cambiate il mondo»

Boris Pahor
Boris Pahor
Domenica 25 Agosto 2019, 15:13 - Ultimo agg. 19:02
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Boris Pahor è uno scrittore sloveno nato a Trieste, quando la città faceva ancora parte dell'Impero austro-ungarico. Domani, lunedì 26 agosto, compie 106 anni e il capoluogo giuliano si prepara a festeggiarlo, con un bridisi in piazza nella "sua" piazza Oberdan. Ma ci sono volute decine di libri, una Legion d'onore, traduzioni in inglese, francese, tedesco, persino finlandese, prima che - una decina di anni fa - l'Italia si accorgesse di lui. «Ho avuto una vita impensabile», dice al telefono con un filo di voce quest'uomo minuto, dai capelli candidi, sempre lucido e pronto a opporsi ad ogni forma di totalitarismo, da qualunque parte provenga.

Che messaggio vorrebbe lanciare ai giovani che, ancora oggi, affollano i suoi interventi, le sue presentazioni?
«Di non accontentarsi della società di oggi, di cercare di migliorarla, di non adeguarsi a questo tempo disgraziato in cui nessun problema si risolve, un'epoca piena di illusioni, che muoiono ancor prima di nascere. Cercate di creare una società onesta, che si occupi dell'uomo comune, di coloro che vanno all'estero, per cercare un'occupazione e cominciare una nuova vita».

A sette anni, nel 1920, fu testimone del rogo del Narodni dom, il centro degli sloveni triestini, dato alle fiamme dagli squadristi. Che ricordo ha di quel giorno?
«Ne ho scritto in un libro. Ero un ragazzo disperato, per me fu uno choc, una specie di fine del mondo. Vidi quel palazzo di sei piani, quasi di fronte al mare, la casa della cultura slovena, praticamente una città in un unico edificio, che conteneva al suo interno anche un caffé, un hotel».

Erano i prodromi della dittatura.
«Il fascismo arrivò due anni dopo. Come adesso, d'altronde».

Vede delle analogie?
«Oggi non c'è ancora quello spirito di lotta un po' barbarico che c'era allora. Si avverte, piuttosto, un senso di rivolta senza uno scopo, senza un fine. Basti vedere come è stato bloccato questo esodo di massa dall'Africa: sono stati creati dei campi di concentramento in Libia»
.
E lei i campi li ha conosciuti.
«Purtroppo sì. Noi che eravamo contro tutte le dittature abbiamo vissuto questi sviluppi orrendi, dopo la prima guerra mondiale. I due partiti di sinistra, socialisti e comunisti, non si capivano, non riuscivano ad accordarsi; e quindi alla prima occasione coloro che urlavano di più - ed erano la maggioranza - cominciarono a colpire prima noi, poi le altre culture. A Trieste la popolazione era mista, siamo sempre stati capaci di convivere senza scontrarci; e questo è stato possibile finché non è arrivato il fascismo. A Trieste abbiamo una chiesa ortodossa serba, un'altra greca, una sinagoga. Iniziò un'epoca disgraziata».

Anche lei andava nella libreria di Saba, come Gillo Dorfles?
«No, andavo in quella slovena. Saba l'ho conosciuto come poeta, da studente. Purtroppo, nel 1918, sono diventato cittadino italiano. E, nel 22, il fascismo ha distrutto tutto, ha chiuso riviste e case editrici. Ho fatto i primi 4 anni di scuola elementare con una maestra slovena. Poi ci imposero quella italiana, ebbi pessimi voti. In classe, durante le lezioni su Dante, leggevo di nascosto il libro di un poeta sloveno, per non perdere la mia lingua».

A un certo punto decise di andare in seminario.
«Sì, per capire cosa voleva dire essere uno studente, altrimenti non avrei avuto una vita facile, con quelle pagelle».

E, qualche anno dopo, la richiamarono alle armi. Partì con una valigia piena di libri, è vero?
«Certo, mi costrinsero a partire per la Libia e io portai con me i libri del liceo. Un tenente capì subito che non mi importava di capire come si carica un cannone, che non avevo alcuna voglia di sparare. Invece di ascoltare le lezioni, mi sedevo sulla sabbia e tiravo fuori un libro di Ovidio o una tragedia greca».

Non la presero bene?
«Il tenente si accorse che avevo quella cassettina in cui tenevo tre o quattro libri, la volle requisire. Io la consegnai e nascosi dentro la giacca i volumi di cui avevo bisogno per studiare. Quando mi ricoverarono a Tripoli, mi dovevano impiantare due denti, mi procurai delle traduzioni di opere greche in italiano».

Voleva conseguire la maturità?
«Ebbi l'occasione di farlo a Bengasi. Ero artigliere del duecentesimo reggimento, accompagnavo le camicie nere che, come arma, avevano solo il moschetto. Eravamo quasi al confine con l'Egitto. C'era una sessione d'esame a settembre, a Bengasi. Ci lasciarono partire, fu un vero viaggio. Mi ero preparato, l'unico 8 in italiano fu il mio. Una vera soddisfazione».

Più tardi, sarebbe anche diventato professore di italiano.
«Esatto».

Poi è arrivata la lotta insieme ai partigiani, finché fu catturato dai nazisti. Nel libro Necropoli lei racconta l'esperienza nei campi di concentramento. Ne scrisse tornandoci anni dopo, da turista: «Questi sguardi curiosi non potranno mai penetrare nell'abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana».
«Ho dovuto arrangiarmi, e me la sono cavata soprattutto grazie alle lingue. Ero a Natzweiler-Struthof, in Alsazia, l'unico campo nazista in Francia. C'erano molte malattie, un giorno mi si infettò una mano e un chirurgo belga venne a curarmi. Quando tornò alcuni giorni più tardi nel mio blocco, per disinfettare piaghe, curare corpi che marcivano, gli chiesi di lasciarmi la fascia, così non sarei andato a lavorare nella cava. Lui rifiutò: sarebbe stata una specie di sabotaggio».

La sua concezione dell'umanità è cambiata da allora?
«Avevo già capito, studiando il 
De bello gallico, che l'uomo distrugge altri popoli soltanto per ottenere altre conquiste, altre dominazioni. Il mondo di oggi è moderno nelle tecniche belliche e di comunicazione, ma è lo stesso dai tempi di Cesare e Gengis Khan. La brama di potere si riscontra anche nei bambini».

È ancora credente?
«No. Leggendo grandi autori che hanno studiato il cattolicesimo, come Ernest Renan, che scrisse ben tredici edizioni de La vita di Gesù, ho finito per cambiare la mia concezione. Renan aveva già capito che Cristo era un uomo meraviglioso, coraggioso, che si sacrificava per l'umanità. Ma questo è umanesimo, non religione. Deus, sive natura. Dio e natura sono uguali, sono la stessa cosa».

Pensa mai alla vecchiaia?
«No, non ci ho mai pensato. Non ho mai scritto una sola pagina pensandoci. Piuttosto, il mio scopo è trasmettere ai giovani quello che ho vissuto, quello che un uomo deve conoscere per la propria formazione».

Il segreto della longevità?
«Cercare sempre di occuparsi di ciò che più ci interessa. Per me, significa provare a scrivere della propria vita, attenendosi alla regola di dire la verità, e di trarre insegnamento dalla propria esperienza».
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