M’era capitato qualche mese fa, per allestire un seminario universitario, di rileggere “Il Nome della Rosa”, dopo quaranta anni. E la sensazione aveva confermato, anzi rafforzato la prima impressione del libro che ora, fresco di stampa, ho ancora tra le mani con i suoi profili e piante di abbazie, castelli, labirinti. Eco rappresenta certi luoghi come accumulatori di passioni, di idee, di immagini, di drammi. Questi luoghi angoscianti scatenano l’immaginazione, la “produzione romanzo”. È l’intuizione della loro potenzialità in cui si concentrano misteriosi poteri, come nel castello convento. Dalle cinquecento fittissime pagine si esce storditi ed esausti, con la sensazione di un “tutto detto” davvero definitivo, di una proposta enciclopedica in cui ogni voce “tiene”, di un ordine che è tornato a regnare dopo le devastazioni di omicidi a catena, inseguimenti a lume di candela tra reliquiari e cataste ordinate di manoscritti trecenteschi. E regna indisturbato e sovrano su ciò che è l'esito più naturale e appariscente di tanto trambusto, con anatemi contro il progresso, ventate di apocalissi, teatrini inquisitori allestiti in gran fretta, gran ribollire di idee e di passioni, idee che si fronteggiano e passioni che si mortificano.
Eco non può pensare un romanzo al di fuori della storia, intende la storia totale (compresa quella sugli aspetti della cultura quotidiana messa in scena negli schizzi inediti e gli appunti sulle tecniche dell’agricoltura e della cucina nella nuova edizione del romanzo), come qualcosa che non si può pensare “fuori di un va e vieni costante dal passato al presente”. Aveva ragione Jacques Le Goff, uno dei grandi sponsor della prima avventura echiana nella narrativa. “Il Nome della Rosa” è un insieme di delitti intorno a un libro, la messa in scena delle funzioni del libro in una cultura e in società microcosmica, quella del monachesimo e macrocosmica, quella dell’Occidente medioevale. È anche la storia di un’apocalisse libresca, l’incendio della biblioteca, la tragedia del fondatore di una biblioteca per sua stessa definizione. Nel romanzo c'è un libro proibito, nascosto in una inaccessibile Biblioteca, luogo per eccellenza della Sapienza interdetta, della Cultura come feticcio rivelato che non può essere comunicata attraverso l'apparato divulgativo della mediazione intellettuale.
Ma il romanzo stesso, con ciò che in esso accade, con la sua “struttura”, alleggerisce e libera l'Oggetto Letterario dalla rete delle sue aristocratiche complicazioni.
Attraverso la puntuale ricognizione di “ogni segno”, con uno schema invincibile che si vuole apocalittico ma che poi più opportunamente si rivela frutto non casuale del “caso”, “Il Nome della Rosa” condanna senza appello l'interdizione (la fascinazione) per cui si resta muti di fronte all'Oggetto Letterario. Questo oggetto si trasforma in ciò che è sempre stato per l'Umberto Eco teorico e che trova nel suo esordio narrativo una smagliante e imprevista dimostrazione: il luogo, cioè, dove intelligentemente si agitano idee, si ricordano inquietanti antefatti, che provocano folgoranti analogie in una forma-struttura che da sola ingloba quegli antefatti, quelle analogie.
“II Nome della Rosa” arriva per Eco quando appare lecito scrivere un romanzo “per puro amor di scrittura” quando ciò di cui “non si può teorizzare si deve narrare”. Ed Eco vi ha profuso l'intera sua sterminata conoscenza (che è insieme filosofica e antropologica, storica, letteraria, semiologica) di testi medioevali. E anche qualcosa di più, la piacevolezza dello scrivere quando «la penna è morbida», dice lo stesso Eco per bocca del suo Adso. Si pensi a tutte le (apparenti) divagazioni del romanzo: poco decifrabili senza il ricorso a quella «piacevolezza» o all'«ossessione» cui accennavo prima. Si pensi alle pagine di ammirazione di Adso per il portale della chiesa dell'Abbazia, o a quelle in cui egli parla del proprio estatico rapimento per la musica. Si pensi a certe descrizioni minute dell'Edificio in cui la pertinenza analitica dei singoli frammenti nasconde una magnifica incongruenza di fondo: quel che di maniacalmente vagheggiato si deposita su un oggetto particolarmente amato, per una volta (una splendida “prima volta “narrativa) senza più l'intento pedagogico della chiarezza funzionale, senza il vincolo di una rivelazione da capire, da smontare, da demistificare. E per riderci sopra, perfidamente, con il ghigno crudele dell'intelligenza vittoriosa tanto temuta da Jorge perché “è debolezza, è la corruzione, l'insipidità”.