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Domenico Rea, un presepe da abbuffata nell'universo mangereccio del presepe

Lo scritto di Rea recuperato insieme ad altri dimenticati, dispersi o non più editi da decenni

Il presepe dei fratelli Scuotto
Il presepe dei fratelli Scuotto
di Ugo Cundari
Articolo riservato agli abbonati
Sabato 3 Dicembre 2022, 12:00 - Ultimo agg. : 12 Dicembre, 10:23
3 Minuti di Lettura

Per secoli i napoletani ne sono stati certi: la fame è peggio del terremoto, della peste, delle invasioni straniere. Via via che lo stomaco rimane «vacante» l'affamato degrada verso stati animaleschi più infimi. Pulcinella ha voglia di buttare giù, quando mai ne trova, maccheroni fumanti. È sempre roso dai morsi della fame. Nel Seicento, nel Settecento, nell'Ottocento il napoletano si svegliava con un unico scopo, «magnare». E così, quando dalla Spagna i gesuiti portarono il presepe che doveva regalare gioia, i napoletani l'intesero alla lettera: un paradiso sceso in terra ossia un luogo di facili abbuffate. Se si può definire con un solo aggettivo il presepe, è quello di essere «mangereccio». Ecco perché «la grotta di Betlemme, situata in un angolino, è l'unica cosa povera e isolata del paesaggio. Per il resto, tante osterie affollate di gente che mangia e beve».

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Per le strade «poverissima gente rincasa in cima a carriaggi pieni di cavolfiori, lattughe, broccoli di ogni genere, cicorie e ogni sorta di ortaggi, aranci, fichi, uva e, come se mai Gesù fosse nato al colmo dell'inverno, ogni sorta di frutta, specie estiva, e caciocavalli di Regno, mozzarelle di Battipaglia stillanti latte, trecce di Campobasso, bocconcini di cardinale, dentici, orate, spigole, merluzzi, triglie, anguille e capitoni (o come li si chiamava nel Settecento: tomacchi), frutti di mare vongole, cocciole e fasulari, cannolicchi, ostriche e tartufi pollame, vitella, vitellone, manzo, piedi di porco, salsicce forti calabresi, soppressate di Matera, peperoni di ogni colore e dimensione, rosari di agli, aringhe in botti scoperchiate, eccetera, ecceterona», scrive con il suo consueto stile pirotecnico Domenico Rea in un racconto pubblicato nel 1974 in poche copie non in commercio dall'Ente provinciale per il turismo della Regione Campania.

Lo scritto, recuperato insieme ad altri dimenticati, dispersi o non più editi da decenni, è ora nella raccolta di Rea L'universo mangereccio del presepe e altri scritti natalizi (D'Amato, pagine 152, euro 15) a cura di Alessandro Basso. 

Rea conclude la sua riflessione constatando che quando Napoli ha superato il suo stato endemico di fame, a farne le spese è stato il presepe, diventato «materiale artistico d'antiquariato o giocattolo». In altri due scritti, pubblicati tra il 1985 e il 1990 sulla rivista dell'Azienda autonoma di soggiorno, cura e turismo di Napoli, Rea indugia ancora sul presepe e poi sui dolci, prima quelli classici e poi quelli natalizi, interpretati con uno sfoggio di fantasia vulcanica.

A dimostrazione delle origini partenopee della sfogliatella sono «i suoi tortiglioni che ricordano le scalinate e i riboboli di molti palazzi gentilizi». Il babà è talmente soffice «che fa pensare alla pigrizia dei napoletani perché talvolta quaggiù anche mangiare è una fatica. E il babà, si può quasi sorbire». Gli struffoli hanno qualcosa di pastorizio, «se fossero neri e sparsi su un prato rassomiglierebbero ai resti che si lasciano dietro le miti pecore che arrancano sulle salite del presepe». 

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Queste elucubrazioni dolciarie diventano poi, puntualmente, delle scuse per dimostrare la vocazione barocca di Napoli, che significa vocazione al gusto intenso, ai contrasti improvvisi, all'impasto di colori opposti.

Solo ai piedi del Vesuvio «il più nero giorno può essere squarciato da una spada di sole sferzante e la giornata più luminosa si può trasformare in un tunnel». In cielo le nuvole ora sembrano «salve di cannoni», ora pacifiche scale che «ascendono come arcangeli con vesti gonfie come mongolfiere nei cieli dipinti da Salvator Rosa, Stanzione, Solimena, Giordano, ecc. e che si trovano tutti nelle nostre chiese». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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