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Domenico Scafoglio e Simona De Luna, Brigantesse e briganti: l'altra metà ​della ribellione

Storie inedite o ricostruite con dettagli inediti di decine di brigantesse, prima d'ora poco indagate dalla storiografia

Michelina Di Cesare, la brigantessa
Michelina Di Cesare, la brigantessa
di Ugo Cundari
Articolo riservato agli abbonati
Sabato 7 Gennaio 2023, 10:00
4 Minuti di Lettura

Maria Rosa Marinelli, potentina, è la promessa sposa di un brigante. I soldati del neonato regno d'Italia la mettono sotto sorveglianza. Quando sono sicuri che lei stia per raggiungere il futuro marito, l'arrestano. Per dimostrare che tra i due si è già consumato un rapporto, il che farebbe di lei una complice naturale del capobanda, ricorrono alla prova della verginità. «La giovane è sottoposta alle ignominiose verifiche delle donne perdute, ossia all'ispezione degli organi sessuali, la prova cui si sottopongono le prostitute. La verifica dimostra la verginità della donna, ma lascia su di lei gli effetti che l'umiliazione e il logoramento di un processo iniquo lasciano su un'innocente, con aggravanti di maggior peso». Maria Rosa non aveva alcuna intenzione di combattere al fianco del promesso sposo, ma dopo l'arresto e l'umiliazione non ha altra scelta.

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Maria Oliverio, nome di battaglia Ciccilla, uccide la sorella e decide di diventare una brigantessa. Sposa un brigante e quando questi viene ucciso lo decapita, ne brucia la testa per non lasciarla alla propaganda dei soldati italiani, e infine prende il comando della banda. Tra i crimini a lei imputabili il più eclatante è il sequestro di nove persone tra nobili e alti prelati come il vescovo di Tropea. Catturata, è condannata a morte, pena commutata ai lavori forzati a vita a Fenestrelle. È l'unica brigantessa di cui siano state scattate tre fotografie invece di una. «I fotografi dell'esercito la ritraggono nel carcere, mettendo in scena la donna vestita alla brigantesca e armata, che accenna a un sorriso, quasi compiaciuta di questa teatralizzazione coatta». 

Michelina Di Cesare diventa famosa, per ardimento e furbizia, quanto Maria, ma è uccisa in combattimento. Le cronache la descrivono come «brutta e segaligna». Per dare maggiore risonanza alla notizia della sua fine i soldati ne fotografano il busto nudo con i segni della violenza sul volto e diffondono l'immagine su tutti i giornali facendo molto scalpore. Eugenio Bennato le ha dedicato una canzone, «Il sorriso di Michela».

Luisa Mollo è specializzata negli agguati. Raccoglie notizie, prepara tranelli, informa il capo. Di solito si finge perseguitata dai briganti, chiede aiuto ai militari promettendo che li avrebbe condotti nei covi dei rivoltosi dove invece sono pronte le imboscate.

Queste sono alcune delle storie raccolte nel poderoso saggio Brigantesse e briganti (Guida, pagine 726, euro 40) dagli antropologi Domenico Scafoglio e Simona De Luna, storie inedite o ricostruite con dettagli inediti di decine di brigantesse, prima d'ora poco indagate dalla storiografia. Sono «spose, madri e guerriere», sono vestite da uomo con i capelli tagliati a zero, combattono tra i monti, cucinano tra i pagliai, partoriscono nelle grotte e allattano nei boschi. Le cronache giornalistiche del tempo tendono a esagerare i comportamenti efferati delle brigantesse. 

«Iena feroce» è detta Filomena Cianciarulo, che «non rifugge dai misfatti». Di Giuseppina Gizzi, compagna di un brigante del Cilento responsabile di quarantacinque omicidi, i giornali scrivono che «la donna è spietata quanto il suo uomo. Non trema dinanzi al sangue umano, e mai vacilla dinanzi ai più atroci misfatti». Filomena Pennacchio per festeggiare la sua unione alla banda beve vino mescolato a sangue nel teschio di un bersagliere da poco massacrato. L'unica che sembra pentita della sua scelta di diventare brigantessa, ma forse finge per evitare la pena di morte, è Sceppella, che al processo confessa tra le lacrime di essere stata costretta a seguire il marito brigante, e «da allora non altro ho visto che sangue, pugnali, omicidi».

Le premesse teoriche del saggio sono un'altra novità. Gli autori non suggeriscono nessuna interpretazione faziosa o parziale del brigantaggio, per loro quel che conta è la necessità di «riscrivere la storia di un fenomeno, che comunque lo si voglia chiamare (insorgenza, movimento legittimista, guerra civile, conflitto sociale, reazione alla modernizzazione, scontro di civiltà e così via), coinvolge per un decennio, dal Cilento agli Alburni, dall'Irpinia alla Basilicata, non solo gli uomini ma anche e spesso soprattutto le donne, in più di una occasione in prima linea». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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