Vite false, robot bugiardi e noi:
«Fake people», benvenuti nel web

Photo by Bermix Studio on Unsplash
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di Cristian Fuschetto
Martedì 18 Agosto 2020, 15:00
5 Minuti di Lettura
Conversiamo con Siri, chiediamo informazioni ad Alexa, invochiamo un “Hey Google” per ascoltare una playlist o per sapere il tempo che fa, affidiamo la pulizia del pavimento a Roomba, facciamo la figura degli appestati se ci scappa di chiedere informazioni stradali a qualcuno invece che al navigatore, insomma il mondo pullula di oggetti smart e capite bene che se tra essi ce ne dovessero essere alcuni, anzi ce ne dovessero essere molti, moltissimi, costruiti con il solo scopo di ingannarci, sarebbe un bel problema per tutti. In Fake People. Storie di social bot e bugiardi digitali, uscito di recente per Codice Edizioni, Viola Bachini e Maurizio Tesconi ci parlano di questo, di eserciti di robot progettati per ingannarci. Sono i social bot, programmi automatici in grado di imitare il comportamento degli umani senza destare sospetti.
 
Se i followers li compro al supermercato
Tra i robot ingannatori meritano senz'altro un posto in pole position i bugiardi dei social network: sono i «fake followers», falsi profili automatici che seguono una certa persona con lo scopo di gonfiarne il numero di seguaci, o gli «amplification bots», che, oltre a seguire, condividono e commentano i post di chi vuole risultare più popolare agli occhi degli altri utenti. Sono le cosiddette «Strategie del pesce palla»: ti gonfi per sembrare più grosso di quel che sei. I social bot soddisfano i bisogni di tanti aspiranti influencer desiderosi di drogare il proprio “curriculum”, ma anche di chi nella vita fa altro ma a un like più proprio non resiste. E alzi la mano chi è senza peccato.

In Russia ci sono veri e propri distributori automatici che consentono di acquistare like e follower nei centri commerciali. A Helsinki ne hanno fatto una performance artistica, si chiama Quickfix e l’ha ideata il belga Dries Deporter. I cittadini della capitale della Finlandia potevano scegliere tra diversi pacchetti di “segui” o “mi piace”, richiederli a Quickfix, una scatola con tastiera con all’interno un Arduino, pagare quanto dovuto e attendere che la macchina facesse il proprio dovere. La compravendita di seguaci è un mercato in crescita e il bisogno è tale che vanno bene anche seguaci finti. Comprare follower non sarà reato ma senz’altro è molto triste e va pure contro i termini di servizio delle piattaforme social. Nei casi degli influencer l’inganno procura anche notevoli danni economici, nel 2019 l’agenzia Cheq ha stimato che il falso marketing degli influencer è costato agli inserzionisti 1,3 miliardi di dollari.
 
I cyborg scendono nell’agone politico
Guai seri questi robot ingannatori li hanno fatti anche in politica e tutto lascia credere che continueranno a farlo. A manipolare il dibattito pubblico sono soprattutto i “cyborg”, squadre di bot comandate da persone che possono far scrivere la stessa frase da migliaia di account sui social così da amplificare messaggi in campagna elettorale. Uno studio del CNR ha analizzato i milioni di follower dei candidati alla scorsa tornata elettorale in Italia, scoprendo che gli account attivi sul social network sono solo una piccola parte. «Questo significa – scrivono Bachini e Tesconi – che molti politici sono seguiti da account quantomeno sospetti, visto che non postano e non condividono contenuti da molto tempo, o addirittura non lo hanno mai fatto fin da quando sono stati creati».

A fornire lo strumento di indagine più raffinato per scovare i robot bugiardi è stato un ricercatore italiano in forza all’Università della California, Emilio Ferrara, che ha sviluppato Botometer, liberamente accessibile per chiunque voglia sondare la presenza di fake followers nella propria platea Twitter. Nelle presidenziali degli Stati Uniti del 2016 è venuto fuori che almeno 400.000 bot cinguettavano sui principali topic della sfida elettorale sviluppando una potenza di fuoco di quasi 4 milioni di tweet, un quinto di tutti quelli scambiati sul tema. «Un dato interessante – spiega Ferrara (su ogni tema affrontato gli autori intervistano un esperto) – è la frequenza con la quale gli utenti umani ritwittavano i bot, che era la stessa con cui ritwittavano gli altri umani. Questo significa che un bot su Twitter vale quanto una persona in termini di coinvolgimento nel discorso politico».
 
Cynk Technology, il boom dell’azienda che non esisteva
Dinamiche per certi versi ancora più raffinate sono utilizzate nella finanza, dove gli algoritmi dominano. È diventato un caso di scuola il caso della Cynk Technology. Un’azione della Cynk, intorno alla metà di giugno del 2014, valeva 10 centesimi di dollaro. In poche settimane però accade l’impensabile: le azioni schizzano a quasi 15 dollari e nel giro di pochi giorni l’azienda raggiunge quota 4 miliardi e mezzo con una crescita del 20.000 per cento. Una grande bolla gonfiata dai bot: un esercito di account automatizzati aveva infatti postato su Twitter una serie di false notizie positive sulla Cynk, decantandone le doti di azienda solida e ben posizionata sul mercato. E così in un cortocircuito tra stime farlocche e speranzose aspettative gli algoritmi deputati ad analizzare le conversazioni sui social network a caccia di indizi per futuri investimenti hanno alimentato una crescita esponenziale di investimenti in un’azienda con valore pari a zero.

Sul “trading algoritmico” gli autori di Fake People hanno sentito Fabrizio Lillo, professore ordinario all’Università di Bologna ed esperto di metodi matematici e statistici per l’economia e microstruttura dei mercati finanziari, che spiega la centralità della sentiment analysis e quindi dei robot nei processi finanziari. «Oggi agenzie di informazione finanziaria come Thomson-Reuters forniscono due diversi sentiments: tradizionale ed estratto dai social. E sono in grado di farlo con una risoluzione del minuto”. E aggiunge: “Ormai gran parte delle compravendite non vengono fatte manualmente, ma da algoritmi che processano i dati e prendono decisioni».
 
Fake people a chi?
Finanza, politica, marketing, amicizie, amori, tutto quel che si consuma in rete pone un problema di autenticità, ma questo è forse un dato acquisito e per molti versi anche banale. Vale per la rete come per quello che ci ostiniamo a distinguere con l’espressione “vita reale”. Il volume di Viola Bachini e Maurizio Tesconi può suggerire qualcosa di più, invita a ragionare non solo sull’autenticità ma sulla soggettività, sulla liquidità del “chi” in un mondo digitalizzato. Se un bot può comportarsi come un umano, vale la pena chiedersi se gli umani si comportino come bot. Nella disperata e disperante rincorsa di dare fiato all'ego e di urlare in confortevoli filter bubbles, urge evitare di farci bellamente arruolare nelle già ingrossate dei “Fake People”. Se l’infosfera ha un problema di trasparenza, di affidabilità o, se volete, di diffusa ipocrisia, quel problema lo abbiamo anche noi. L’infosfera non è l’al di là dello schermo, non è un mondo spettrale abitato da nerd. L’infosfera è l’ambiente in cui da un decennio almeno abbiamo piantato tutti radici. L’infosfera siamo noi. 
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