Raiz: «I miei racconti come canzoni senza voce»

Raiz
Raiz
di Federico Vacalebre
Lunedì 24 Maggio 2021, 18:43
5 Minuti di Lettura

Gennaro Della Volpe in arte Raiz - il libro è firmato proprio così - aveva sempre voluto scrivere «qualcosa che andasse oltre il testo di una canzone, più lungo e completo, quasi che la voce riempisse gli spazi lasciati liberi dalle parole mancanti, completasse lo svolgimento emotivo della narrazione. Poi è arrivata la pandemia e, oltre al resto, mi ha tolto le canzoni, il palcoscenico, la voce. Così, sono venuti fuori questi racconti, sgorgati da una fonte che non voleva prosciugarsi, diventare sterile», spiega lo storico frontman degli Almamegretta a proposito di Il bacio di Brianna.

Una raccolta di racconti brevi come una canzone, Rino. A volte persino di più.
«Si, ho capito che quello è il tempo del mio racconto, anche se forse mi piacerebbe estenderlo fino a quello di un film».

Suggestioni sinestetiche.
«La canzone, il cinema, la letteratura...

sono tutti modi per comunicare emozioni, per raccontare storie, per parlare all'animo umano. In fondo, questo libro è un album con venti racconti, potrebbe diventare un film costruito su venti episodi».

Venti sono i capitoli, da «Faccia di corno» a «Non spaccio». Alterni un linguaggio in prima persona, autobiografico, o quasi, a uno di fiction.
«Si, senza soluzione di continuità: ho fatto la pace con Gennaro Della Volpe, ho ripreso la sua identità, qui è lui che parla, il Raiz degli Almamegretta non è stato invitato, queste pagine non raccontano la mia carriera. Ed è sempre Gennaro Della Volpe che si inventa storie, spesso disegnate su persone fisiche, che non c'entrano nulla nelle trame in cui si ritrovano inserite».

Facciamo degli esempi.
«La Brianna del titolo è vera, come quel primo bacio al mare, in vacanza con la famiglia. Io avevo 15 anni, lei 13».

«Mi avvicinai, appoggiai la bocca tra lo smeraldo del suo occhio e lo zigomo, e in quell'istante diventai uomo», scrivi. Poi c'è Yusuf, che arriva carico di speranza a Napoli per precipitare nel male.
«Lui non esiste, è frutto di invenzione, anche se l'ho costruito addosso a un mio carissimo amico senegalese».

Sono racconti di formazione, metropolitani, cosmopoliti, tra Londra e Tel Aviv, e Napoli, naturalmente. Che a volte regalano un sorriso verace, come in «Non spaccio».
«Di nuovo una storia vera, quella di come il giovane Gennaro scoprì di avere un dono, la voce, e di come quel dono potesse diventare un mestiere, un lavoro, oltre che una passione. Con Enzo Petrone, un nome storico del rock napoletano, e suo fratello Massimo - ma nel libro non ho messo i loro nomi veri - avevamo messo in piedi una band, provavamo a San Biagio dei Librai. Oddio, era un trio da pianobar, basso, tastiere, batteria elettronica e io, promosso a cantante sul campo. Il repertorio erano gli hit del momento, neanche malissimo: Sting, Zucchero, Huey Lewis and the News. Incidemmo una cassetta, la mandammo in giro e iniziarono ad ingaggiarci. Suonavamo un paio di volte almeno a settimana, per me c'erano 80.000 lire a sera, alzavo 6-700.000 lire al mese, per me un'enormità. Le mettevo via, non riuscivo nemmeno a spenderle, misi su un bel gruzzoletto. Ma una notte, rientrando a casa, invece di trovare tutto buio come al solito trovai la luce accesa e mio padre ad aspettarmi in camera mia».

Che cosa era successo?
«Aveva in mano delle banconote, capii subito: aveva forzato il mio cassetto e trovato il mio tesoretto, quasi tre milioni. Ora mi devi dire cosa cazzo vai facendo, mi urlò con quelle banconote in mano, da dove vengono queste?. Giurai: Non spaccio, papà, provai a spiegare chi stavo diventando, poi il giovedì successivo lo portai con me in un jazz club. Era un momento di passaggio, un rito di transizione accelerato: lui avrebbe scoperto un figlio che non conosceva, io mi sarei mostrato come a casa non avevo fatto mai».

Per ultimo bis eseguiste una versione quasi reggae di «Island in the sun».
«Era una delle sue canzoni preferite, lui aveva sognato di fare l'artista e aveva dovuto rinunciare. Io stavo realizzando il suo sogno».

«Mi abbracciò, cosa che gli era sempre difficile fare a causa della sua riservatezza. Quell'abbraccio lo conservo ancora come un'impronta sul mio corpo. Ogni volta che ne ho bisogno è lì».
«Poi c'è la dedica: a mio padre, maestro, amico, Bruno Della Volpe 1939-2016».

Da anni convertito all'ebraismo, hai il doppio passaporto, italiano e israeliano. Come vivi questi giorni di sangue su sangue in Medio Oriente?
«Con dolore e frustrazione. Quando parlano le armi non ci sono distinguo da fare, bisogna farle tacere. Poi serviranno uomini di buona volontà per fare una pace, uno straccio di pace, indispensabile ad entrambe le parti in lotta. Da lì verrà anche la convivenza».

© RIPRODUZIONE RISERVATA