La volta che suo padre avvocato, quando capì che non sarebbe mai diventato un legale, gli disse: «Scegli pure la tua strada, ma se devi diventare un idraulico, cerca di essere il miglior idraulico del quartiere».
La compagnia teatrale chiamata Aquarius, come la canzone di «Hair»: erano tempi di utopie, tournée con i sacchi a pelo e macchine scassate. Il Sessantotto e la maturità. La ribellione gentile e le inquietudini malinconiche. La lezione di Strehler: «Ti posso insegnare a scrivere, ma non a diventare poeta». Il successo con il Teatro dell'Elfo e il salto nel cinema. L'Oscar per «Mediterraneo» nel 1992 e le lacrime di delusione del favorito Zhang Yimou, che invano cercò di consolare: «Mi rispose, concitatissimo, in cinese. Non credo fossero espressioni di cortesia». La trilogia dela fuga («Marrakech Express», «Turné», «Mediterraneo») e la voglia di sperimentare nuovi scenari e nuovi linguaggi. Le radici napoletane mai dimenticate e il fascino dell'altrove. Gli amori, i sogni, gli amici, le delusioni. L'ansia che da sempre lo attanaglia, la gioia che si accende e si consuma troppo in fretta. La vita.
C'è tutto questo e molto altro ancora in Lasciateci perdere, il libro (edito da Rizzoli) che Gabriele Salvatores ha scritto con la preziosa collaborazione della giornalista e scrittrice Paola Jacobbi (oggi alle 18 la presentazione alla Feltrinelli di piazza dei Martiri). Lasciateci perdere, come doveva essere in un primo momento il titolo di «Mediterraneo», ma anche lasciateci stare, lasciate che ci perdiamo, lasciateci esplorare il mondo e inventare altre forme di creatività, come pensavano i ragazzi che sono stati bambini negli anni del boom e adolescenti nel Sessantotto. Non a caso sulla copertina c'è la foto di un giovane Salvatores con i capelli lunghi e la chitarra, fatta ai tempi in cui sognava di diventare una rockstar e il cinema era un desiderio ancora lontano.
Non una semplice autobiografia, il libro è piuttosto il memoir di una generazione descritta con la tenerezza del ricordo e il disincanto dell'ironia, mescolando il personale e il politico, come si diceva allora nelle assemblee, le storie e gli aneddoti in una geografia umana e sentimentale che finisce per riguardarci tutti. Salvatores racconta gli entusiasmi degli esordi con gli Elfi in teatro, «un lungo apprendistato» di conoscenza e disciplina, gli ideali di giustizia e uguaglianza che «sono rimaste utopie», l'errata diagnosi di leucemia (in realtà policitemia) che gli diede il senso del tempo e il coraggio di lanciarsi nel cinema. E poi gli anni dei grandi cambiamenti sociali e politici e l'anarchia creativa che spingeva giovani come lui, come Moretti o Tornatore a fare da soli, «ognuno cominciando a tessere da un filo diverso».
Riavvolgendo il filo dei venti film che presto, con «Napoli-New York», ora al montaggio, saranno ventuno, senza contare i documentari e i videoclip che gli hanno permesso di mettersi alla prova, ciascuno, su tecnologie o generi diversi, il regista ripercorre il passaggio dalla moviola all'Avid e dalla pellicola al digitale, affronta nuovi strumenti e nuovi codici estetici, dice dei film più amati, come «Io non ho paura» e «Nirvana», e dei più tormentati, come «Denti» e Amnésia», ma non trascura i progetti mai realizzati, come «Cromosoma Calcutta» dal romanzo di Ghosh e «Anna» di Niccolò Ammaniti. Con semplicità parla dell'amore giovanile con Corinna e di quello della pienezza della vita con Rita, l'ex moglie di Abantuono che gli è accanto da quasi quarant'anni, della loro famiglia allargata e del piacere di sentirsi il «bis-nonno», nel senso di «nonno bis», dei suoi nipotini.
A settantatré anni, che ha festeggiato a Napoli, sul set del nuovo film con Pierfrancesco Favino tratto da un soggetto inedito di Fellini e Pinelli, Salvatores rompe l'abituale riservatezza per condividere aspetti inediti della sua personalità, riflessioni sul terzo tempo dell'esistenza e confessa, come il protagonista del «Il ritorno di Casanova», di sentirsi diviso tra la necessità di continuare a fare film e il desiderio di dedicarsi alle cose troppo a lungo trascurate. Sapendo, come tutti i registi, che in realtà tutto si intreccia e si sovrappone, perché alla fine «il cinema è una disciplina che aiuta a vivere mentre lo fai».
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