Premio Strega 2023, Gianfranco Di Fiore candidato con il suo “L’amore inutile”

“L’amore inutile”: il Sud, la solitudine e le fragilità umane nel mondo moderno

"L'amore inutile" di Gianfranco Di Fiore, Wojtek Edizioni
"L'amore inutile" di Gianfranco Di Fiore, Wojtek Edizioni
di Aurora Alliegro
Domenica 5 Marzo 2023, 17:28
8 Minuti di Lettura

Sono ottanta i libri candidati al Premio Strega 2023, il concorso letterario che ogni anno fotografa il panorama letterario ed editoriale del Paese. Tra questi non mancano autori di origine meridionale che hanno messo in scena, in forme varie, il Sud nelle sue possibilità e contraddizioni. È il caso di Gianfranco Di Fiore con il suo “L’amore inutile”, edito dalla casa editrice indipendente Wojtek.

Nato ad Agropoli, cresciuto a Paestum e laureatosi all’Orientale di Napoli in Filosofia, Di Fiore è stato già nominato allo Strega nel 2018 con “Quando sarai nel vento”. Nella sua ultima pubblicazione Di Fiore ritorna ai paesaggi della sua giovinezza, all’abbandono e al declino della sua terra. 

Presentato allo Strega dalla scrittrice Valeria Parrella, il romanzo indaga tematiche complesse dalle implicazioni esistenziali e universali, dai tratti morbosi e talvolta macabri: l’ossessione per la bellezza, gli spettri della solitudine, la dipendenza emotiva e la vulnerabilità degli esseri umani. Senza nome e senza una identità ben definita, i due protagonisti ricercano sé stessi nell’altro. È una passione “vergine” la loro, fatta di sguardi interiori, prospettive remote e sussurri a telefono. Lei, senza voglia di vivere, fa i conti con una bellezza ormai imperfetta, una famiglia senza anima e una normalità irrealizzabile. Lui, vittima di una crisi molto profonda disvelata solamente nel finale, si sente un artista incompiuto, solo e incerto. I due, suggellati nelle loro solitudini, si abbandonano l’uno all’altro, ai rispettivi dolori, ai traumi e alle ferite, in cerca di una salvezza apparentemente impossibile.

Pensato come omaggio alla fotografia e al cinema francese, “L’amore inutile” è una riflessione sulla complessità dello stare al mondo, sulla coppia e sull’individuo, sul bisogno affettivo e sull’indipendenza emotiva, una necessità che passa attraverso la rinuncia all’altro e la scoperta di sé.

Una narrazione, quindi, che dischiude numerose chiavi interpretative. A tal proposito, ecco quanto raccontato dall’autore Gianfranco Di Fiore in merito al suo libro “L’amore inutile”.

Gianfranco Di Fiore, autore di "L'amore inutile"

Come nasce “L’amore inutile”?
«Questo libro ha avuto una gestazione molto lunga.

Il primo germe risale ai primi anni 2000, poco dopo l’avvento di Internet. Mi rendevo conto che il virtuale aveva un impatto su tutti, e ne sono stato subito incuriosito. Ascoltando le storie dei miei amici, mi colpiva soprattutto l’impatto di internet sull’emotività delle persone. E mentre questa alterità, questo mondo virtuale un po’ buio veniva rappresentato come una grande possibilità, io notavo che le persone passavano sempre più tempo in casa. “L’amore inutile” è molto diverso dai miei due libri precedenti, è giocato interamente sullo sguardo interiore ed è concepito come una sorta di album fotografico. Sono tanti i piani del racconto: c’è una dimensione metafisica, una simbolica, una familiare. Si parla del rapporto dell’uomo con l’arte. C’è anche il Sud e l’abbandono della nostra terra.»

Chi sono i due protagonisti? E perché sono anonimi?
«Lui è stato una specie di parto che deriva da lei, una sorta di capovolgimento biblico: Adamo che nasce da Eva. In quanto uomo, osservavo molto di più il femminile perché credevo di conoscere già il mio genere. Invece, dedicandomi al femminile, sono riuscito a capire di più anche i maschi. Così come lei diventava una somma di tante caratteristiche di donne che conoscevo, anche lui diventava una specie di vertigine in cui convogliavo tutto quello che potevo. Sentivo, infatti, che il libro stava diventando qualcosa di universale che poteva interessare tutti. Per trasmettere questo messaggio in maniera decisiva, ho deciso di non dare un nome ai due personaggi. E poi ho estremizzato questa scelta spogliando anche i luoghi, che tratto a loro volta come dei personaggi. L’assenza dei nomi riguarda quindi tutti e tutto, tranne i fotografi citati dal protagonista. L’omaggio alla fotografia insito nel libro per me doveva andare fino in fondo.»

«Quando ci s’innamora nel dolore bisogna prepararsi a stagioni gelide, a lunghi inverni: le donne lo capiscono da subito e non fanno niente per mettersi al riparo»

Qual è il ruolo delle rispettive famiglie nel romanzo? Si tratta di sistemi di supporto o di meccanismi disfunzionali, guasti e fallibili, che riflettono una più ampia disgregazione individuale?
«La famiglia per me è problematica in generale. Si tratta della costrizione peggiore a cui gli esseri umani sono costretti. Uno: perché non la si può scegliere. Due: perché si ritrovano insieme persone diverse, ognuno con i propri traumi, e messe insieme non si possono saldare o stemperare. Ognuno pone una certa quantità di dolore in quell’entità nuova che è la famiglia. Penso che le famiglie siano destinate a fare i conti con un mondo cambiato, fatto di linguaggi e luoghi più o meno reali dove si trovano violenza, bullismo, solitudine.»

E il ruolo delle madri invece?
«Le madri sono la cura per eccellenza, quando funzionano. E se non funzionano spesso non è colpa loro. In passato era soprattutto l’impatto del patriarcato a ridurre la donna in un angolo, togliendole dignità e spazio nel mondo. La mia critica è soprattutto verso il mondo maschile. Il padre di lei è l’emblema di questo discorso. Nel romanzo c’è tanta simbologia legata alla maternità. Le stanze chiuse dei due protagonisti richiamano il ventre materno. È come se loro vivessero ancora in questa sorta di placenta: non sono ancora nati, si portano dietro questo cordone non ancora spezzato.»

È possibile innamorarsi di una voce?”, si chiedono ripetutamente i protagonisti nel romanzo. Ma cosa rappresenta per te la voce?
«La voce è musica, quell’accordatura che ti permette di far suonare due strumenti diversi insieme. Due persone, attraverso la voce, creano delle armonie. Ma è fondamentale anche l’ascolto. Anzi, sguardo e ascolto sono ancora più importanti della voce nel libro. Il mondo produce dei suoni e la voce è un suono della natura. Ovviamente la voce smette di avere importanza quando non c’è ascolto. Anche il simbolo del telefono ha una grande importanza, è l’archetipo dello stare ad ascoltare.»

Ma l’amore è veramente “inutile”?
«Il titolo è chiaramente una provocazione. Si tratta del titolo che avevo scelto per una sceneggiatura che scrissi molti anni fa. Quando iniziai a scrivere questo libro, avevo già questo titolo dentro di me. Mi piacevano il suono e la contraddizione che creava. Posso dire però che nessun sentimento è inutile. L’amore diventa inutile soltanto quando sei in ascolto dell’altro senza avere una consapevolezza su te stesso. Se non sai davvero chi sei, tutto ciò che costruisci diventa inutile. Non sono un tipo di grandi proclami, ma il messaggio del libro è di tipo socratico: capisci chi sei prima di entrare nel mondo.»

«Esisteva un mondo che ripartiva a ogni risveglio, la vita poteva cambiare in un istante, la solitudine non era una condanna ma una possibilità per comprendersi in maniera definitiva» 

Che valore ha per te questa seconda candidatura al Premio Strega?
«È sempre bello sapere che ciò che fai riceve un riconoscimento. In questo mondo editoriale non sai mai come muoverti, avere dei sostegni intellettuali è importante. Ho vissuto la mia prima candidatura diversamente perché “Quando sarai nel vento” era un romanzo importante e ci avevo lavorato per tanti anni. Questa seconda candidatura arriva dopo cinque anni con un editore diverso e uno scrittore che è cambiato molto come persona. La vivo in maniera molto più serena. È una gara a cui è bellissimo partecipare, e basta. E poi sono molto felice di essere stato nominato da Valeria Parrella, una bravissima scrittrice napoletana.»

«Si stava svuotando, o magari era così che si diventava adulti: il cuore rallentava, gli occhi vedevano male e senza lacrime, le dita provavano a scrivere e dolevano, e la schiena non sopportava alcuna posizione. Forse, per diventare amanti, bisognava rompersi. Rompere il suo corpo, rompere le parti di lei, e alla fine rompere anche le parole»

Qual è il tuo rapporto con il Sud e con Napoli?
«Io mi sento napoletano dentro. Da piccolissimo il mio sogno era diventare capitano del Napoli. A 6 anni avevo tutta la cameretta azzurra, il pallone di Maradona. Forse ancora prima del Napoli, il calcio mi ha forgiato su tante cose, proprio come una palestra di vita. Anche il mio modo di fare viene da qui. Napoli è dentro di me: è l’amore per un certo tipo di musica, cibo, letteratura, ma sta anche nei difetti. C’è un’estetica del napoletano che a volte diventa un limite. Ciò che forse mi ha reso diverso dagli altri è stato quell’universo di viaggi che ho fatto, ho vissuto molto fuori. Credo che la mia scrittura abbia un respiro internazionale.»

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