Mura tra Jannacci, Endrigo e Piaf senza mai stonare

Sergio Endrigo e Anna Identici nel 1970 in Giappone
Sergio Endrigo e Anna Identici nel 1970 in Giappone
di Federico Vacalebre
Sabato 2 Settembre 2017, 14:24 - Ultimo agg. 15:00
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Il titolo della nuova collana di Skira, «Note d’autore», non è originalissimo, e non a caso all’interno del libretto che dà il via alle pubblicazioni l’autore troverà il modo di polemizzare anche con la definizione di «canzone d’autore» (quasi che esistessero canzoni figlie di n.n.), ma l’esordio è dei migliori, e non poteva essere altrimenti, visto che i due curatori, Gianni Biondillo e Alberto Tonti, lo hanno affidato a Gianni Mura, giornalista narratore di imprese sportive, di saperi e sapori che ha spesso confessato di aver vissuto, cantato, ascoltato, stonato.

Non a caso, «Confesso che ho stonato» (pagine 103, euro 13) ha il rabdomantico gusto delle cronache del giornalista di «La Repubblica», che saltabecca tra omaggi e ricordi, svisate («Live? No grazie - Ovvero: il karaole fatelo a casa vostra») e riflessioni («Poeta sarà lei», appunto sulla annosa questione del rapporto tra poesia e - ci risiamo - canzone d’autore). Il narrautore sin dal titolo (in)canta con la leggerezza dell’amarcord di caserma: dove, racconta, è nato il suo amore per la canzone popolare, visto che i carabinieri agli ordini del padre maresciallo - mentre preparavano una pastasciutta - intonavano «Come pioveva» o «Maramao perché sei morto». Poi censisce a memoria le canzoni che hanno scelto di affrontare un tema scabroso come le morti sul lavoro e, parlando del capolavoro chicobuarquedehollandiano di «Construção», ricorda la versione di Anna Identici per tesserne l’elogio di voce coraggiosa che il mondo dell’elite sinistrorsa non capì in tempo solo perché «veniva da Sanremo»: la sdoganiamo prima che sia troppo tardi?

Se i ritratti e le cronache di vita vissuta sono il campo d’azione preferito di Mura, ecco che qui giganteggiano le pagine dedicate a due freak, due non allineati, due capiscuola ancora non adeguatamente riconosciuti: Sergio Endrigo e Enzo Jannacci, uno agli antipodi dell’altro, eppure uniti sul fronte di un rinnovamento mai di maniera. Il primo, condannato dagli sketch di Alighiero Noschese alla fama scema di «cantante triste», rivive sulla pagina nelle sue canzoni migliori, quelle celebri e quelle meno, con l’eleganza mai algida del crooner che si schierò sul fronte opposto, del comunista fedele a se stesso, dell’artista che «la solitudine che gli hanno regalato le case discografiche l’ha coltivata come un fiore, ma con un gambo spinoso. O come un cactus. Senza chiedere niente a nessuno». Il secondo torna a mente, se mai potesse andare via, al fianco del complice Beppe Viola in una Milano ancora non da bere ma solidale e popolare davvero, tra canzoni che erano operazioni chirurgiche per la precisione con cui affrontavano il male e operazioni chirurgiche che erano canzoni per la passione con cui erano affrontate, arricchita spesso da un improvviso ghigno deviante, un particolare non in linea con la «trama».

Oggi che le «scarp de tenis» sono di moda e costano centinaia di euro, il cantacronista va dritto per la sua strada, deagiografizza la biografia della somma Edith Piaf e aggiunge in calce un elenco, sincero quanto generoso e partigiano, di chi lo ha fatto cantare, pardon, stonare: si parte con Alice e Fausto Amodei («Morti di Reggio Emilia/ uscite dalla fossa/ fuori a cantar con noi Bandiera rossa»), il Duo Piadena in ordine alfabetico viene subito prima di Bob Dylan, si chiude passando da Vittorio Viviani a Tom Waits e Atahualpa Yupanqui. Senza una stonatura.
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