Scego, Cassandra a Mogadiscio: la genealogia di una famiglia dispersa

Un'autobiografia fondata sulla storia orale

Igiaba Scego
Igiaba Scego
di Donatella Trotta
Giovedì 16 Febbraio 2023, 07:29 - Ultimo agg. 16:50
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Un lessico familiare italosomalo. Un romanzo di formazione in 14 capitoli-glossario bilingue con un «intermezzo decoloniale» e una chiusa «in movimento», ben oltre la saga di una stirpe plurivoca, diasporica, ibridata di lingue e mondi diversi, ferita dal jirro, la malattia di «una dittatura, una guerra infinita e migrazioni multiple» e dall'«illow», l'oblio; ma al contempo resa più forte dallo spaesamento, da continui sconfinamenti, attraversamenti, lutti e gioie segrete grazie al potere dei «buugga», i libri, e all'energia della «qoys», famiglia che sa porsi domande (su'aalo), guardando la tragedia («kasaro») dei conflitti («dagaal») e della Storia, personale e collettiva, con occhi («indho») nuovi. (Sor)ridenti. Capaci di custodire e tramandare l'«husuus», la memoria. Che si fa carne. E, con essa, la speranza. In una geografia del cuore impersonata da una genealogia in prevalenza al femminile: lungo la linea mobile di un «maternage» senza confini di ruoli, tessuto con il filo saldo delle parole salvifiche. E con l'urgenza e le sfide di una scrittura tenace nella ricerca di senso. Forse perché tutti i «dismatriati», esuli dai traumi di sradicamenti, condividono la nostalgia di comunità e di pace. O magari perché «in Somalia il prossimo è sempre una abayo, sorella, o un abowe, fratello», scrive Igiaba Scego nel suo nuovo libro Cassandra a Mogadiscio (Bompiani, pagine 368, euro 20): una peculiare autobiografia linguistica non a caso costellata nella scrittura brillante, nitida e vibrante di emozioni di sonorità «altre», che diventa così potente testimonianza letteraria di indagine (e cura) memoriale. Fondata soprattutto sulla storia orale. In grado di dare voce corale, corpo (collettivo) e visibilità inedita a un passato recente ancora vivo, benché rimosso, in un'attualità postcoloniale dove il mostro della violenza razzista e misogina ancora alligna.

Scego, scrittrice italosomala, «afro-euro-politana» dall'identità mescidata, pedagogista, ricercatrice militante e giornalista freelance, si definisce qui una «donna made in Italy» ma anche una «turjumaan», traduttrice abitata da più lingue: quella materna, il somalo di sua madre Khadija (hooyo), la nobile pastora nomade vittima di un «doppio esilio», dalla terra natìa e dall'alfabeto; il «chimini», lingua paterna e franca dell'Africa Orientale che per l'autrice ha l'eco del rimpianto del papà («aabo») Ali Omar, «gentiluomo e caballero» di Brava, già sindaco di Mogadiscio, governatore, ministro, ambasciatore, capo del Comitato olimpico somalo prima che la dittatura di Siad «Bocca Grande» Barre lo costringesse all'espatrio perenne e a una vita precaria, ma sempre dignitosa; l'inglese mai abbracciato fino in fondo, malgrado l'amore per Jane Austen, per la prosopopea di ex colonizzatori imperialisti; lo spagnolo e il portoghese di canzoni, libri e autori amati; il francese della diaspora e, soprattutto, l'italiano: per lei, madrelingua nata e cresciuta a Roma, «la lingua degli affetti», dei segreti, di cantautori amati come Pino Daniele, del cinema e della grande letteratura, «lingua un tempo singolare e ora plurale» perché «mediterranea, di incroci», da Dante a Elsa Morante fino a Pap Khouma, Amir Issa, Djarah Kan.

E se per sua madre, donna-archivio vivente e tessitrice di storie orali di antica sapienza, l'idioma italico è anche «la lingua degli angeli e dei sogni», per Igiaba, che scava a fondo nelle sue luci e ombre, evoca pure la lingua «delle colonie, della frusta e delle catene»: un «italiano dominante che uccideva ogni sentimento», fatto «di catrame e sangue», di fiele, vergogna e umiliazioni che suo nonno paterno Omar, interprete per il generale fascista Graziani a capo di colonizzatori italiani «ubriachi di aspettative esotiche», traduceva ai sottomessi.

Tornano i temi dominanti della ricerca dell'autrice, ma approfonditi nella summa di un intreccio complesso e coraggioso nella sua sincerità, tra pudore e ironia, con cui Scego affronta nodi privati e pubblici: le guerre civili, gli anni di piombo in Italia, il colonialismo, l'infibulazione in Africa, il valore dell'istruzione, la malattia di cui la scrittrice soffre agli occhi che proprio per questo affinano visioni non convenzionali sul mondo, come quelle, tra tanti numi tutelari citati, di James Baldwin e bell hooks.

E il libro, epopea di una grande famiglia-Cassandra sparsa nel mondo, in cui ciascuno «ha avuto la visione di una parte di catastrofe» e, come la figlia inascoltata di Ecuba e Priamo, porta comunque la fiaccola per inondare di luce il tempio buio della verità storica (su Mogadiscio e non solo), è allora concepito come una fluviale lettera aperta.

Indirizzata all'amata giovane nipote Soraya: attrice nel film «Fiore del deserto» (biopic su Waris Dirie, tredicenne somala infibulata che fuggì a piedi dal suo paese e da nozze forzate, radicandosi a Londra). Una figlia del futuro: alla quale Igiaba, la sua «edo», zia materna, consegna una gioia possibile: «fitta di alfabeto per trovare il senso di tutto. La bellezza condivisa. La memoria salvata. Le storie affidate a un supporto fragile, ... eppure geniale e tenace più della follia umana».

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