Tangentopoli e i cronisti, il terremoto visto da Napoli: «Quelle urla in Procura...»

Tangentopoli e i cronisti, il terremoto visto da Napoli: «Quelle urla in Procura...»
di Antonio Menna
Domenica 16 Gennaio 2022, 10:00
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Aleggia con dolcezza il fantasma di Giancarlo Siani, in questo bel libro di Goffredo Buccini, inviato ed editorialista del Corriere della Sera, origini napoletane e una carriera intera tra Milano e Roma. È una stella polare, Siani, che compare qui e là nel libro, quasi a voler raccontare la via di una generazione verso l'ambita professione. Cosa sarebbe stato se non avessi preso la strada per Milano, per quella scuola di giornalismo i cui diplomati sono stati poi tutti assunti? Che giornalista sarei diventato? Che opportunità avrei avuto? Con una domanda nella domanda: e se fossi stato al posto di Giancarlo, nelle periferie, nella rampa di accesso più estrema e contorta, così a ridosso del pericolo e della solitudine? Quanto poco è mancato perché lo fossi? Quasi come a dire che, per quella generazione di giornalisti non figli di giornalisti, che avevano la grande ambizione di entrare in una redazione, la vita era testa o croce. Testa ce la fai, croce no. A Buccini è uscito testa. A queste domande sull'esistenza e sul mestiere, sulle ambizioni e sulle vocazioni, sembra voler rispondere lungo tutto il libro, che annuncia di voler raccontare un'altra storia - un saggio storico su Mani pulite, l'inchiesta milanese che ha dato il via a Tangentopoli - mentre ci consegna un romanzo di realtà sui giornalisti che hanno raccontato Mani pulite, che si sono formati nell'altoforno del cambiamento d'epoca, e che poi hanno continuato a informare un Paese ubriaco di speranze e tramortito dalle delusioni, dove speranze e delusioni erano personali e universali. 

Per questo soprattutto vale la pena leggere Il tempo delle mani pulite (Laterza): non solo la memoria di una inchiesta giudiziaria che ha attraversato il Paese, scomponendolo, e di cui forse si è detto quasi tutto; ma l'epica di un giovane cronista di origini napoletane a Milano, nella sala stampa del Palazzo di Giustizia, nella retrovia del più grande quotidiano italiano, accanto a veterani e nuove leve, a guardare la storia formarsi e formarsi lui stesso nella storia. Hanno sempre un grande fascino i racconti delle vite minime, personali, quando incrociano i grandi momenti collettivi. Buccini avanza con lo sguardo timoroso e spavaldo al tempo stesso, quello di un giovane trentenne uscito da pochi anni dalla scuola di giornalismo, approdato dopo un po' di gavetta al Corriere della Sera. È una epopea di capicronisti burberi e leali, come Ettore Botti, altro napoletano (calvinista) a Milano, detestato, temuto, amato, rispettato, quasi un prototipo di giornalista della fatica e del sacro fuoco, che muore troppo presto, anche un po' di solitudine.

Buccini ci porta dentro la formazione di un giornalista, ed è molto affascinante questo viaggio nella professione. È un libro che deve leggere chi vuole fare questo mestiere: anche se il mondo è cambiato, sono cambiati i giornali, non è cambiato lo spirito, direi l'anima, del mestieraccio, e qui emerge tutta, col suo carico di dubbi, paure, guasconerie, sfide, trucchi, sussulti di coscienza, agendine nascoste, questioni di principio, vittorie, sconfitte, quasi mai un pareggio. L'esperienza di Buccini in quella sala stampa del Palazzo di Giustizia milanese, proprio quando da lì sta per venire giù il mondo, viene raccontata come deve essere: un cammino di formazione. 

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Un romanzo dove i protagonisti sono colleghi come Peter Gomez (stessa scuola, quasi compagni di banco). E Piero Colaprico, Luca Fazzi, un laborioso e sardonico Alessandro Sallusti: rivalità, ostilità, amicizie, rispetto. E per una volta sullo sfondo, strano a dirsi, i protagonisti di quella storia. I politici, come Pillitteri, Tognoli, ovviamente Craxi. I magistrati, con i loro caratteri, raccontati sul particolare, come Di Pietro, Borrelli, Colombo, Davigo, D'Ambrosio, ma anche Ghitti, e la Boccassini, il suo atto d'accusa dopo la morte di Falcone, e l'amarezza di Falcone stesso, quando riceve al Ministero della Giustizia, guidato dal socialista Martelli, atti da Milano senza gli allegati, perché magari poteva spifferarli proprio ai socialisti. Lui. Falcone. 

E raccontata oggi, questa storia, ti mette davanti alla realtà a volte misera degli uomini, piccola, incapace di leggere la grandezza quando questa si manifesta. Tutto il libro di Buccini, seguendo un appassionante registro cronografico - dai primi anni Novanta con un capitolo finale sui 30 anni dopo - è una saggia mescolanza tra fatti minimi e fatti grandi, con l'inchiesta che parte timida, con la disillusione dei capi, quella Duomo connection che sfiora i vertici e tutti credono vada a tacere come sempre, fino a Mario Chiesa, con quella parola (mariuolo) che se Craxi non avesse pronunciato, forse non si sarebbe aperto il libro delle confessioni, tenuto ben vivace dal poliziotto Di Pietro. Insomma, c'è tutta la storia, nel racconto di Buccini, ma c'è soprattutto uno sguardo diverso. Muta il punto di vista rispetto a come ci è stata raccontata Mani pulite fino a oggi. Non è un resoconto esterno ma un origliare dalla stanza accanto. Sembra di stare lì, vicino alla 254 (ufficio laboratorio di Di Pietro), sembra di sentire le urla, sembra di capire, da un caffè al bar, da una telefonata a gettoni, da un dubbio, dalla paura di prendere un buco, dal titolo sparato con coraggio, che la storia poi quando si forma, lo fa proprio così: piano, lenta, dubbiosa, a piccoli passi sulle spalle degli uomini come Giancarlo Siani, che viene citato spesso, o come lo stesso Buccini - che imparano a fare tutto quello che stanno facendo già. 

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