Jettatura di Théophile Gautier, le regole in versione Grand Tour

Il finale è un duello negli scavi di Pompei dalle conseguenze tragiche per tutti i personaggi del romanzo

Le regole della jettatura in versione Grand Tour
Le regole della jettatura ​in versione Grand Tour
di Ugo Cundari
Martedì 10 Gennaio 2023, 12:00
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Il giovane inglese sbarca a Napoli per ritrovare la fidanzata, da sei mesi a Posillipo per respirare aria buona e tornare in salute. Ma appena mette piede nella villa, capitano piccoli incidenti: chi inciampa, chi avverte una sensazione di malessere. Uno racconta: «Stamane l'ho veduto alla finestra coll'occhio fisso sopra una nuvola poco più grossa d'una piuma; e subito dei vapori neri si sono accumulati ed è caduta una pioggia così forte, che i cani potevano bere stando ritti». Il giovane lord porta male, servette e vetturini ne sono certi e si proteggono come possono, quelle ostentando sulle camicette «mucchi di corallo biforcuto e piccoli gingilli di corno dalle forme irregolari», quelli ricorrendo agli amuleti naturali o all'allungamento di indice e mignolo. Una sera lo straniero va a teatro. All'attore che fa Pulcinella cade il naso di cartone e viene una improvvisa afasia. Sulla via del ritorno, chi incontra il lord per strada si scosta, fa gli scongiuri e impreca: «Ecco lo jettatore!». A difenderlo è solo la fidanzata, alla quale gli amici napoletani regalano continuamente corni e cornetti, e con i quali lei si arrabbia giudicandoli schiavi di «superstizioni africane».

Riuscirà la giovane a far cambiare idea ai napoletani, o saranno loro a far cambiare idea a lei? Per saperlo basta leggere Jettatura (Stamperia del Valentino, pagine 142, euro 15) il lungo racconto del 1856, ormai un classico, dello scrittore francese Théophile Gautier noto per aver scritto Il capitan Fracassa (1863).

Il romanzo, uscito nel 1857, è stato tradotto una prima volta in Italia nel 1887 per Sonzogno, da Teodoro Serrao, di cui viene recuperato ora il lavoro; poi da Alberto Consiglio (Berisio, 1969) e quindi da Maurizio Grasso (Newton Compton, 1993). 

Se proprio si vuole qualche altro particolare della trama, improbabile quanto ogni superstizione, basti dire che per difendere la miss dal suo promesso sposo si fa avanti a chiederle la mano il nipote del conte. Il finale è un duello negli scavi di Pompei dalle conseguenze tragiche per tutti i personaggi del romanzo.

Il racconto dimostra quanto la cultura popolare napoletana sia stata saccheggiata dagli autori e scrittori stranieri in cerca di temi suggestivi, e quanto le invenzioni o le forzature narrative siano poi diventate, con il passare dei secoli, stereotipi che gli stessi napoletani hanno fatto propri, accettandoli come veri, o quantomeno verosimili. 

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Come Goethe sta al napoletano mangiaspaghetti, così Gautier sta al napoletano scaramantico che non è solo il rozzo e il villico, ma anche e forse soprattutto l'acculturato, quello che ha studiato e viaggiato. 

Alla ragazza che inorridisce di fronte a credenze indegne di un europeo, il conte che la ospita nella sua villa premette di non essere un selvaggio: «Sotto i miei abiti non si nasconde una pelle tatuata di rosso e di bleu. Io sono un uomo civilizzato; son stato educato a Parigi; parlo l'inglese e il francese; ho letto Voltaire; credo alle macchine a vapore, alle strade ferrate, mangio i maccheroni colla forchetta, porto la mattina guanti di Svezia, il dopopranzo guanti di colore, la sera guanti paglia».

Poi prende a raccontare la storia della superstizione come scienza infallibile e così finisce il suo ragionamento, che per qualcuno spiegherebbe ancora oggi, più di mille teorie, la coincidenza della Napoli di sopra con quella di sotto: «Allorché incontro uno jettatore, io prendo volentieri l'altra parte della strada e, se non ne posso evitar lo sguardo, lo scongiuro del mio meglio per mezzo del gesto consacrato. Non faccio né più né meno di quello che farebbe un lazzarone e me ne trovo bene. Molte disgrazie mi hanno insegnato a non sdegnare queste precauzioni». 

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