La rivoluzione è nell'aria, Garibaldi si sta organizzando, Cavour sta tessendo le sue trame. L'ambasciatore Canofari da Torino segue la vicenda e invia precisi dispacci al re Francesco II di Borbone, 23 anni, da poco succeduto a Ferdinando II. Il monarca di Napoli, giovane e inesperto, più che «dai rapporti minuziosi ed esatti» del diplomatico si fa suggestionare da «altre notizie e dicerie, assurde e balorde. Il governo partenopeo prende sul serio più le seconde che le prime» sottolinea Luciano Bianciardi (1922-1971) in Da Quarto a Torino (Minimum fax, pagine 235, euro 16), dove racconta lo sbarco dei Mille e si diverte a sbeffeggiare l'impreparazione e l'incapacità politica dei Borbone.
La corte di Napoli un giorno è convinta che Garibaldi sia in viaggio su una nave russa pronto a sbarcare a Messina, il giorno dopo è stato avvistato al largo di Livorno, ma su nave inglese. Anzi, è già sbarcato, a Palermo, e sta lì per avere i rinforzi. Arriva un telegramma: Garibaldi è a Tunisi, aspetta il momento buono per invadere l'isola. Il re fa girare tutte queste fake news e precisa: «Mi limito a dare consigli e informazioni. Per dare ordini son troppo giovane».
Bianciardi commenta: «È stato educato dai Gesuiti. Già gracile, timido, poco provveduto da madre natura, la scuola dei religiosi lo ha completato: è più o meno un imbecille». La propensione del figlio ad affidarsi non a consiglieri seri ma a sensazioni e preghiere gliel'ha passata il padre. Il re Ferdinando II passa le giornate steso a letto con «le membra ricoperte di santini, scapolari, reliquie miracolose, perché è malato un po' dappertutto». Il figlio, al suo capezzale, non fa altro che «borbottare il rosario».
Quando finalmente Garibaldi sbarca con i suoi mille, alle navi napoletane sono arrivati per tutta la giornata ordini diversi: puntare su Trapani, dare un'occhiata a Tunisi, dirigersi a tutta forza verso Girgenti. Per caso quel giorno, l'11 maggio 1860, nella confusione generale, una pirocorvetta borbonica si trova a passare a largo di Marsala. «Nota due navi da guerra ancorate poco fuori del porto: legni inglesi, quindi stranieri, quindi da “sorvegliare con garbo”. Solo quando sono più vicini si accorgono che altre due navi sono in porto, e non inglesi: stanno già sbarcando gente».
Se i marinai borbonici avessero aperto il fuoco avrebbero potuto fermare lo sbarco garibaldino e invece si inizia una trattativa con le due navi inglesi per sapere cosa stesse mai succedendo, chi fossero quegli «scalmanati» che stanno sbarcando in Sicilia, e se, nel caso avessero aperto il fuoco, gli inglesi si sarebbero offesi.
Il cannoneggiamento si apre dopo che i volontari hanno già percorso un chilometro. La prima granata, che ovviamente esplode molto lontano dai mille, viene recuperata da un volontario e, in segno di buon augurio, alzata a mo' di trofeo e accompagnata dal grido «Viva l'Italia». Un altro la prende e la porta a Garibaldi dicendo: «Ho l'onore di presentarle il primo fuoco». Alla fine, l'attacco napoletano «fa una vittima sola, un cane».
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