Mario Pomilio e le nuove provocazioni di un autore scomodo

Mario Pomilio e le nuove provocazioni di un autore scomodo
Domenica 11 Ottobre 2015, 10:39 - Ultimo agg. 22 Ottobre, 22:13
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Quali sono le ragioni - non soltanto narrative - del leggere, o rileggere, Mario Pomilio oggi, in un momento di feconda riscoperta accademica e di nuovo rilancio editoriale di alcune delle sue opere più significative di una letteratura come «ritorno all’umano»? E quale è il senso, qiale l’eredità (e, soprattutto, l’attualità) di un grande e complesso classico del Novecento, per molte stagioni confinato tuttavia nell’oblio da riduttive riserve ideologiche? Uno scrittore che si autodefiniva «pluralista di un'età di pluralismo», ma anche «postero di se stesso», e che è stato definito pure «un clandestino della letteratura e pellegrino dell'assoluto» (Maria Pia Bonanate), «credente pensante» (Carlo Maria Martini) e «cristiano del trauma», cercatore di verità e inquieto esploratore dell'esistenza; ma fondamentalmente, per parafrasare Ermanno Paccagnini, uno «scrittore scomodo perché non ha dato spazio al Grande Bluff» con la forza della lezione etica della sua vigile coscienza.



A 25 anni dalla morte di Pomilio, a 40 dalla prima pubblicazione del suo capolavoro Il Quinto Evangelio (ora riproposto in edizione critica dall’Orma con un saggio del comparatista Gabriele Frasca) e a 50 dal Concilio Vaticano II, che tanto permeò le riflessioni dello scrittore di origini abruzzesi, residenza napoletana e respiro europeo, «Il Mattino» - giornale per il quale Pomilio lavorò per oltre trent’anni, coordinandone (dal 1977 al ’79) le pagine culturali - ha voluto ospitare un Forum, organizzato in collaborazione con la Fondazione Premio Napoli presieduta da Gabriele Frasca, introdotto dal direttore Alessandro Barbano e coordinato, alla presenza di Titta Fiore, da Donatella Trotta. Più di due ore di denso confronto con studiosi (storici, italianisti, comparatisti, critici) e testimoni, confluiti nella Sala Siani di via Chiatamone, nella secolare “casa” di «giornalisti e scrittori di esperienze e formazioni diverse» - precisa in apertura il direttore Alessandro Barbano - «che segnala la straordinaria ricchezza della cultura non soltanto napoletana, ieri come oggi, in un mosaico vitale sul quale vale la pena di riflettere, in un percorso di conoscenza che vivifichi il messaggio di questi protagonisti per le nuove generazioni».



Quella che segue è una sintesi di alcuni momenti salienti del dibattito.



GABRIELE FRASCA – La presenza di Pomilio in città e nel suo giornale è fin troppo evidente: non a caso, il Premio Napoli di quest’anno è dedicato a lui, ma anche a Ernesto De Martino, che pure sembrerebbe un grande dimenticato. Il che ci pone però un problema sulla memoria di questo Paese, che è anche una questione che riguarda Mario Pomilio: il quale, in uno scritto del ’79, «L’apartheid di Dio», riteneva che la sua figura di intellettuale credente, cristiano o cattolico, avrebbe ostacolato l’affermarsi della sua opera, per una sorta di interdetto, nel clima di contrapposizione di quegli anni, soprattutto da quello che all’epoca si definiva «lo strapotere della cultura marxista» o degli «eredi di Gramsci». La cosa singolare, però, è che quando apparve nel 1975 il Quinto evangelio, il romanzo fu un clamoroso successo, con più edizioni e traduzioni. La cosa che continua a sorprendermi è che Pomilio sia invece scomparso quando è crollato il comunismo e quando c’è stato un rilancio del pensiero cattolico, salvo poi riapparire, oggi, in una collana editoriale che ospita autori della vecchia avanguardia, con i quali Pomilio aveva polemizzato. E forse non a caso, proprio in questi giorni sta avendo numerose adesioni di scrittori contemporanei un convegno telematico promosso da Giulio Mozzi e Demetrio Paolin sul sito Vibrisse. Qualcuno potrà vederci una sorta di pietas foscoliana, un risarcimento postumo; io invece ci vedo una questione che ci pone una domanda su quanto è accaduto nell’editoria italiana: il fatto che Pomilio scompaia nel momento in cui, dagli anni ’80, l’editoria italiana tende al monopolio, fa supporre che il suo tramonto non sia dovuto a un mero scontro ideologico ma a ragioni editoriali, merceologiche.



IL MATTINO - Nel 1975, Il Quinto Evangelio vinse appunto il Premio Napoli, che nella giuria tecnica di una fase di svolta annoverava lo storico Giuseppe Galasso (con Umberto Bosco, Virgilio Lilli, Giorgio Petrocchi, Domenico Rea, Mario Sansone, Franco Valsecchi, Mario Stefanile), che lo votò. Preferendolo al Porto di Toledo di Anna Maria Ortese e a Vietato ai minori di Laudomia Bonanni. Professore, ricorda quale fu il clima in cui maturò tale scelta?



GIUSEPPE GALASSO - Fu l’anno della nuova formula di una giuria popolare, affiancata a quella tecnica che selezionava la terna, estesa a 500 lettori, 200 dei quali dal mondo operaio: formula sulla quale non ero d’accordo, perché mi pareva un tentativo apprezzabile di popolarizzazione più formale che sostanziale, quasi un tributo pagato alla demagogia proletaria di quegli anni. Nei lavori della giuria tecnica si designarono subito le candidature, senza dubbi per Pomilio e Ortese, con più travaglio per la Bonanni. Il primo a parlare a favore di Pomilio fu Umberto Bosco: rammento qualche sorrisetto, per i suoi noti orientamenti cattolici, ma la discussione fu abbastanza quieta. Dalle opinioni che si delinearono fu evidente che avrebbe prevalso il Quinto Evangelio, ma bisognava attendere il giudizio ”di appello“ della giuria popolare, che diede un consenso molto ampio a Pomilio: dato significativo, perché il suo non è un libro di facile lettura, come la stragrande maggioranza delle pagine dello scrittore: che richiedono impegno, riflessione, viva memoria. Forse, Pomilio fu facilitato dal fatto che la Ortese fu a lungo incompresa. Del resto molti in giuria, me compreso, viaggiavano tra Pomilio e la Ortese con una preferenza per il primo perché dava l’impressione di un travaglio maturo e completo, di una scrittura originale (come molte dei cosiddetti scrittori napoletani del dopoguerra, che amo per la loro diversità segnata da una comune inquietudine); mentre la scrittura fantasmatica della Ortese esprimeva un mondo ancora in subbuglio, come sarebbe stato provato dalla ulteriore evoluzione della scrittrice.



IL MATTINO - Ma come inquadrare allora Pomilio nella letteratura italiana tout court, e con quale ruolo in un eventuale canone che non c’è? Lo chiediamo a un illustre italianista, il professor Ferroni.



GIULIO FERRONI - Il ragionamento è collegato a quanto si diceva prima. Ma non credo si tratti soltanto del problema della concentrazione editoriale, bensì del fatto che questa concentrazione è legata alla diffusione di una letteratura di consumo, e soprattutto all’attuale schematizzazione del linguaggio: una lingua standard, «di plastica», con modelli di comportamento seguiti da tutti gli scrittori di successo. I libri di valore, pur pubblicati, restano ai margini. E lo scandalo riguarda Pomilio, non ripubblicato per ragioni curiose: «È uno scrittore troppo cattolico», si dice. La verità è che la scrittura di Pomilio è di articolata complessità, non si concede mai all’effetto immediato, è piena di pause, incisi, riflessioni problematiche, pone domande, non dà mai soluzioni definitive. E questo lo rende attualissimo: la sua è una ricchezza, un’articolata problematicità tipica dei grandi autori. Dopo gli anni della ”riserva ideologica“ mi è capitato di immergermi nel suo mondo poco dopo la sua morte, a partire da Una lapide in via del Babuino. Mi interessavo di scrittori postumi, della scrittura interrotta: fu una rivelazione. Tra l’altro, per me uno dei capolavori assoluti di Manzoni è proprio Il Natale del 1833. Ritornare sul Natale del 1833 di Pomilio mi dava il senso della complessità del suo interrogare, che non è un riscrivere, ma un dialogare con la storia e l’Occidente da un presente lacerato. Il Quinto Evangelio, altro grande libro, ha degli aspetti di tipo sperimentale che ricombinano la fanta-filologia in rapporto con la parola della verità dei Vangeli, sfiorando sempre l’eresia ma non entrandoci mai dentro. Offre il senso dell’interruzione, dell’incompiutezza della parola e dunque del senso, e della vita da un punto di vista universale. È un capolavoro come pochi, perché mette insieme tutto. Lo dico da laico: è un libro che avrebbe bisogno di essere tenuto più presente dai nostri contemporanei, tanto più oggi, quando il cattolicesimo mostra una nuova vitalità.



IL MATTINO - Non a caso Pomilio interrogava la Bibbia, e i Vangeli, «come letteratura». Ma tra il romanzo L’uccello nella cupola, del 1954, e il Quinto Evangelio c’è di mezzo il Concilio: con quali suggestioni, per un lettore ”intraecclesiale“ come il gesuita Luigi Di Pinto, docente emerito di Sacre Scritture e teologia biblica?



P. LUIGI DI PINTO - Il volume mi fu regalato da amici napoletani quando uscì, come «un libro adatto a un prete». Leggendolo, mi trovai spiazzato dalla quantità enorme di spunti, sollecitazioni e profondità. Poi anche per me è venuto il momento dell’oblio di 40 anni. Certo, restava la suggestione del titolo, il nome dell’autore. Ma erano rimaste anche molte tracce. Ne sintetizzo quattro. La prima: l’attesa lettura di un Vangelo originario. Non il quinto, ma il primo. Ossia, un Vangelo che viene prima dei Vangeli canonici come origine, come una realtà dinamica che si fa prevalente in tutte le pagine dei sinottici. Un’altra indicazione era quella di un Vangelo parallelo apocrifo, che non è però posseduto per intero da nessuna congregazione perché ognuno ne possiede dei frammenti, diversamente distribuiti nel tempo e nello spazio. Poi, c’è la traccia di un Vangelo esoterico, riservato a pochi iniziati, che esclude la massa perché è criptico. Infine, la quarta traccia: il Quinto vangelo non è altro che il singolo credente, che ogni volta riscrive la sua storia. Qui Pomilio stesso cita un frammento relativo a Gesù, quando gli venne chiesto: «Ma come hai fatto ad aver condensato in così poche pagine una ricchezza tanto grande? I Vangeli non dovrebbero essere contenuti in molti libri?». E Gesù risponde: «No, perché ogni giorno i miei discepoli lo riscrivono». La modernità di Pomilio sta proprio nella sua ricchezza pluralistica, con un grande rispetto dell’altro. Perciò questo libro è come un grande castello in cui ciascuno può trovare la propria stanza e nuovi stimoli a cercare. Non è un libro concluso, perché pervaso da una incessante sete di ricerca. E di valori.



IL MATTINO - Una ricerca che in un libro pomiliano degli anni ’60, Il cane sull’Etna; frammenti di un’enciclopedia del dissesto, suggerisce spunti di forte attualità, come nell’analisi dell’italianista Giovanni Maffei su questo racconto, ora negli Atti del recente convegno su Pomilio all’università Suor Orsola Benincasa editi da Studium, dal titolo Le ragioni del romanzo. Mario Pomilio e la vita letteraria a Napoli, a cura di Fabio Pierangeli e Paola VIllani.



GIOVANNI MAFFEI - Questo racconto in effetti è posto in una posizione cruciale, perché sta a metà strada tra il primo Pomilio, quello de La compromissione (1965) e il Quinto Evangelio. In qualche modo dà delle indicazioni molto forti su questo passaggio dal primo al secondo Pomilio. Nel primo c’è anche Contestazioni, un libro di polemica letteraria del ’67 nel quale Pomilio se la prende molto con la nuova avanguardia, in particolare con un libro di Angelo Guglielmi, Avanguardia e sperimentalismo, dove il Gruppo ’63 asseriva: «È finita la storia», quindi è finito il romanzo, la possibilità di raccontare. A questa considerazione Pomilio risponde a suo modo. In particolare, nel Quinto Evangelio e con grande energia negli Scritti cristiani, da poco ripubblicati in una edizione accresciuta a cura di Marco Beck pe Vita e Pensiero, la risposta è che bisogna cercare ancora una direzione. Parla proprio di questo: dell’«utopia di una direzione». Io credo che questa utopia della direzione ci serva ancora. Serve al credente, al non credente, a tutti, molto ai giovani. Perché la grande glaciazione che prima era vista dagli intellettuali della nuova avanguardia ora è una realtà comunemente acquisita, alla quale ci siamo rassegnati, assuefatti. Invece Pomilio ci dice: bisogna puntare alla storia, bisogna recuperare un’escatologia. C’è stata un’escatologia cattolica, un’escatologia marxista. E proprio per questo interesse per l’utopia di una direzione, per il suo essere cristiano, per il suo recuperare una speranza, Pomilio può essere un autore oggi vitale anche per i laici.



IL MATTINO - Magari, anche rileggendo i suoi poco indagati e dispersi scritti giornalistici, ora recuperati dall’italianista Paola Villani con un saggio fresco di stampa su «L’altro scrittoio: Mario Pomilio al ”Mattino”» (in C’era una volta la terza pagina, a cura di Daniela De Liso e Raffaele Giglio, Franco Cesati 2015). Con quali rapporti tra giornalismo e letteratura, annosa questione nella nostra storia giornalistica e letteraria?



PAOLA VILLANI - Il dialogo tra letteratura e giornalismo è in Pomilio un impegno totale, rispetto a una fitta schiera di letterati (come Salvatore Di Giacomo) che ha considerato il giornalismo un servaggio. In Pomilio invece il giornalismo ha un ruolo centrale per le sue due grandi vocazioni: narrativa e critica, intersecate in una sapiente operazione calibrata nella diversità dei registri linguistici da lui usati. Grazie alla famiglia, ai figli Annalisa e Tommaso, siamo riusciti a recuperare tutti gli scritti che definirei il «para-Pomilio» perché costituisce l’avantesto, il Pomilio dell’impegno civile che nel ’65, dalle colonne del «Mattino», criticò gli intellettuali perché credevano «di aver ragione per il solo fatto di essere intellettuali» e dicevano «voi» anziché «noi», senza sentirsi dunque corresponsabili degli errori. Richiamo prezioso, questo della responsabilità e corresponsabilità, soprattutto oggi. Si è spesso detto di un Pomilio postero di se stesso, ed effettivamente è un fuori tempo, che è forse una causa del suo mancato successo postumo; ma forse, era anche fuori luogo. Fieramente, irriducibilmente fuori tempo e fuori luogo. In fin dei conti, era un cattolico davvero eretico, che ha posto, anche da manzoniano, domande radicali al cattolicesimo. Penso a un bell’articolo sul «Mattino» dove sottolineava: «La fede non è la soluzione in questo mondo. È il problema». Ed è tutt'altro che un traguardo: anzi, è un insieme di nodi. Ecco, io credo che la vera religione di Pomilio sia la religione della libertà, che non esiste senza responsabilità. Lui era intollerante solo nei confronti dell’intolleranza.



IL MATTINO - Tema che ci porta all’ultima, ma non meno importante testimonianza di questo giro, quella del figlio Tommaso Pomilio: uno degli scrittori e poeti più significativi della sua generazione, con il nome d’arte Tommaso Ottonieri. Un testimone diretto della complessa traiettoria del padre. Ma come si è misurato con la sua opera?



TOMMASO POMILIO - La mia formazione è avvenuta in quella fase semicosciente, o del tutto inconsapevole, in cui grandi impulsi avvenivano dalla crescita delle posizioni letterarie di mio padre nella sua svolta, opportunamente individuata da Maffei alla fine degli anni '60, con una serie di narrazioni metafisiche nel senso più laico del termine che si raccolgono ne Il cane sull'Etna. Ho narrato la mia esperienza diretta di questa contiguità e di sostanziale, intima estraneità in un racconto, «Giù dal corridoio», poi incluso nella mia narrazione a sua volta metafisica, fantascientifica e para-memoriale che è Le strade che portano al Fùcino. Il ricordo che più è rimasto impresso nella mia memoria è la corsa del bambino piccolo verso lo studio del padre e il suo arrestarsi senza poterne varcare la soglia, davanti alla vetrata dalla quale si intravedevano nuvolette di fumo ad accompagnare un rito molto personale, al bimbo difficilmente comprensibile, che si stava svolgendo. Al tempo stesso, però, c’era una grande intimità con la figura che si affacciava sulla soglia. Un’immagine emblematica: il vivere dal di dentro questi eventi è stato un vivere accanto e in parte anche discosto. Quanto al Quinto Evangelio, quando uscì, nel '75, l’evento fu segnato da una stupida dicotomia che si stabilì con un’altra opera-mondo allora appena uscita, l’Horcynus Orca di D’Arrigo: libro altrettanto straordinario e altrettanto scomparso, con una polarizzazione che forse finì per penalizzarne la comprensione. Mio padre era peroccupato di questa contrapposizione; definiva Il Quinto Evangelio la sua «sfida sperimentale»: frutto di una ricerca pluriennale che per lui era un riportarsi ai grandi modelli di sperimentalismo appartenenti ad una fase in cui era ancora sentita l’utopia di una direzione. Cito un autore per tutti, molto amato e studiato, argomento della sua tesi alla Normale di Pisa: Pirandello. Ma ricordo anche altri due numi tutelari, non so quanto da lui esplicitati nella sua saggistica e nella sua pubblicistica, come Musil e Borges, in una chiave totalmente diversa. Giunge perciò opportuna l’imminente raccolta di saggistica letteraria di Pomilio, in cantiere da Studium e da Nino Aragno editore, che ho piacere di annunciare in questa sede..

(A cura di Donatella Trotta. Ha collaborato Davide Cerbone)
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