Aprile è un mese crudele perché dà speranze e perché ne toglie, perché sa mischiare le carte e rimescolare il sangue degli amanti. Se c'è un brano che sa rendere struggente questo sentimento, questo è il «Caminito» che tutti noi identifichiamo con la voce di Carlos Gardel. Una stradina (anzi due) che un musicista e un poeta argentino percorrevano abitualmente e che ispirò la famosa canzone. Un sentiero di un quartiere di periferia di Buenos Aires, con i cespugli spinosi dei viottoli non ancora coperti dal cemento, dove due ombre camminano abbracciate fino a che il tempo annullerà il ricordo.
Percorre questa stessa strada il romanzo-tango di Maurizio De Giovanni Caminito, (Einaudi, pagine 280, euro 19). Nuovissimo, attesissimo, già vendutissimo. È il grande ritorno del commissario Ricciardi dopo tre anni di sosta, momentaneamente congelato e proprio per questo reclamato a viva voce dagli affezionati lettori. In verità, De Giovanni non ha mai avuto intenzione di congedarlo definitivamente, il poliziotto della regia questura di Napoli negli anni del Fascio. Uscito di scena poco prima di diventare padre, Luigi Alfredo Ricciardi ha continuato a raccontargli storie all'orecchio. E oggi, dopo la morte dell'amata Enrica, è pronto a riprendersi il ruolo centrale che gli spetta nella copiosa produzione dello scrittore, con questa indagine ambientata ad uno snodo cruciale della storia italiana. Siamo tra il 1939 e il 1940. È l'ora delle decisioni irrevocabili. La guerra che incombe, le leggi razziali, l'invasione dell'Albania, il Patto d'Acciaio con la Germania. Il caso ruota attorno a un duplice omicidio, il ritrovamento a San Giovanni a Teduccio di due giovani amanti uccisi in un boschetto dove si erano appartati per fare l'amore. In controluce c'è un Paese in una cruciale fase di passaggio, stravolto da trasformazioni urbanistiche e sociali, pericolosamente affacciato sull'orlo dell'abisso.
Ricciardi ora ha una figlia di sei anni, Marta. Affidata alla bruttina ma fedelissima Nelide, nipote della defunta zia Rosa, e alla nobile amica Bianca, contessa Palmieri di Roccaspina. Bambina vivace e sensibile, anche troppo, tanto che il padre teme abbia ereditato il suo stesso dono-condanna: quello di sentire le voci dei morti di morte violenta. A suo modo anche Marta, non vi diremo come, dimostrerà di essere «speciale». Ad affiancare l'indagine del commissario c'è sempre il fidato brigadiere Maione, alle prese con la travagliata adozione della giovane Benedetta, messa a rischio dall'improvvisa apparizione di uno zio d'America. Torna con Ricciardi anche l'amico medico Bruno Modo, ruvido antifascista sotto stretta sorveglianza. Con lui il dialogo più politico del romanzo, quello sulla «belva italiana» e sul suo compare tedesco, che stanno facendo a gara a chi fa peggio. Mentre tutti, Ricciardi compreso, accusa Bruno, continuano la vita di ogni giorno, «gli occhi a terra, senza capire che siamo già da tempo al punto di non ritorno».
Questo il contesto, questo il cast che De Giovanni mette in scena per il suo tango letterario. Che non è il tango dei pacchetti preconfezionati coi soliti aggettivi (sensuale, peccaminoso, trasgressivo, ruffiano), ma una filosofica «tanghitudine» che per sortilegio s'insedia tra le cose e dentro gli uomini. Molto più di «un pensiero triste che si balla»: una visione del mondo. Per una coppia, un'alleanza silenziosa che i tanghèri chiamano «afinidad» e che qualcuno ha paragonato alla trance ipnotica. Per tutti quelli che in questo ballo si riconoscono, una forma di conoscenza dell'altro, quasi una categoria dello spirito. Se insisto sul tema una ragione c'è. De Giovanni ha infatti in animo una trilogia dedicata all'universo tango, sempre seguendo vita e indagini del nostro commissario. Che tornerà probabilmente in Cilento, che affiderà ancora pensieri ed emozioni a questa musica che sa esorcizzare la nostalgia. E già lo scrittore guarda in avanti a uno spin-off che vede protagonista la giovane Marta nei primi anni Sessanta, anni cruciali in una Napoli gioiosa, piena di vita e di fermenti.
Se da un lato il registro dominante di questo anomalo poliziesco è quello della rilettura storica degli anni del fascismo, più intensamente degli altri romanzi della serie qui la scrittura di De Giovanni vibra di echi e di richiami alle memorie del passato, al tempo perduto, all'amore inespresso, al fluire della vita che trascorre e svanisce lasciandoci solo il suo senso inesplicabile. È il tempo, che unisce e separa, a rendere assurda e insensata ogni vicenda personale. A Ricciardi e alla sua sposa, così come ai due giovani uccisi nell'attimo in cui si giuravano amore eterno, è stata sottratta la felicità dopo averla promessa. Sul «caminito» coperto di cardi una mano cancellerà ogni traccia. Prima che ciò accada, come canta Gardel, «sono venuto per l'ultima volta, sono venuto a raccontarti la mia pena».