Nick Cave si racconta in un libro: da rocker maudit a «santautore» per sopravvivere

Nick Cave si racconta in un libro: da rocker maudit a «santautore» per sopravvivere
di Federico Vacalebre
Lunedì 26 Settembre 2022, 06:56 - Ultimo agg. 15:28
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Nick Cave è un collezionista di esorcismi. Lo era quando cercava di trovare un ordine nel caos dei Birthday Party, lo era quando iniziò a piantare i Cattivi Semi (Bad Seeds) del suo canzoniere solista, lo era quando assaltò il cielo del sesso e del sessismo con i Grinderman, e lo è ancora più oggi che trasforma un libro in un epicedio per il figlio Arthur, caduto nel 2015 da una scogliera dopo aver assunto Lsd, e lo pubblica a pochi mesi dalla morte di un altro figlio, Jethro.

Fede, speranza e carneficina è un libro spiazzante. Costruito con una serie di interviste con Seán O’Hagan, giornalista ed innanzitutto amico vista la ritrosia del sessantacinquenne rocker australiano nel parlare con la stampa, racconta un percorso disperato verso la speranza, spiega la fede di un uomo (ancora) senza Dio, narra la conversione di un urlatore tossico in un tradizionalista conservatore, segue la metamorfosi di un grande narratore in musica pronto a trasformarsi in «santautore»: «Penso che sarei più felice se smettessi di guardare le vetrine e mi decidessi a entrare nel “negozio” della fede assoluta in Dio».

Non è la storia di Giovanni Lindo Ferretti, ma in qualche modo la evoca, con un dolore-rumore di fondo assordante, con parole-sassi che riaprono ferite mai rimarginabili.

A O’Hagan, spesso partendo dall’album «Gostheen» (2019), dal processo compositivo con Warren Ellis, dai versi di canzoni recenti o meno, Nick confessa l’inconfessabile evitando di cedere alla mitologia rock dei «beautiful losers». Non assolve il suo passato nel nome del presente misticheggiante. Non colpevolizza i giorni bohémien nel nome della nuova consapevolezza religiosa.

Cave sa che «potremmo cambiare molte pelli, ma restiamo fondamentalmente sempre lo stesso maledetto serpente». E sa che «il giovane Nick Cave poteva permettersi di nutrire un certo disprezzo per il mondo perché non aveva idea di ciò che lo aspettava. Riesco a vedere ora quel disprezzo o quello sdegno nei confronti del mondo come una sorta di lussuria o di appagamento, di vanità persino. Non aveva idea del prezioso valore della vita – della fragilità. Non aveva idea di quanto difficile, ma essenziale, sia amare il mondo e trattarlo con misericordia... non aveva idea di quello che sarebbe successo».

Tutto, nel libro, riporta a Arthur, ma il lettore pensa anche a Jethro, che conobbe il padre solo ad 8 anni, che soffriva di schizofrenia, che era appena uscito di galera. L’immagine di Susie, la moglie del songwriter, che ascolta una radio è quella che precede la telefonata che annuncia la morte di Arthur. Diventa il verso di una canzone, diventa il momento in cui anche Susie si inabissa prima di tornare ad una nuova vita, al suo fianco nel rapporto con i fan intessuto sul web via The Red Hand Files. 

L’uomo che ha letteralmente scritto un libro (The sick bag song) sui sacchetti per vomitare in aereo non cerca di fare una bella figura evoca indirettamente la scommessa di Pascal concordando con lui nell’utilità di credere: se Dio esiste, si otterrà la salvezza, se non esiste preghiere, messe e spiritualità avranno condotto a una esistenza più serena.

Lo chansonnier ululante, il post-bluesman che voleva una vita spericolata è sopravvissuto a se stesso, ai lutti che lo stanno accompagnando: nel libro se ne vanno anche l’ex compagna Anita Lane, la madre Dawn, l’amico e grande produttore Hal Willner. O’Hagan ricorda che a conversazioni concluse sono scomparsi anche Mark Lanegan e Chris Bailey, tra le pagine più evocative c’è il primo incontro con Lou Reed, mito personale di Cave (dopo Elvis Presley, con Iggy Pop, con Johnny Cash) che non sapeva all’epoca quale male lo stesse divorando.

L’unica certezza è la morte: «Ognuno di noi è in pericolo, ogni vita è precaria, e alcuni di noi lo comprendono e altri no. Ma certamente tutti lo comprenderemo prima o poi», scrive, e poi, per spiegarci perché riesce ancora a far musica, perché ha ancora bisogno di far musica (ma ora anche statuette di creta, in esposizione a Tampere, in Finlandia) dopo la morte di Arthur, ancor più dopo quella di Jethro, racconta una storia: «Kisa ha un bambino che pensa sia malato e corre per tutto il villaggio invocando aiuto, ma gli abitanti si rendono conto che in realtà il bambino è morto, le dicono di seppellire il suo bambino nella foresta. Disperata, Kisa consulta il Buddha. Il Buddha risponde a Kisa di andare di casa in casa a raccogliere semi di senape per preparare una pozione per guarire il bambino. Ma le dice che può prendere il seme di senape solo da case all’interno delle quali nessuno sia morto. Così Kisa lo fa, ma, ovviamente, ogni casa che visita ha visto morire qualcuno. Torna dal Buddha senza nessun seme, ma con la consapevolezza di essere parte del grande fiume dell’umanità, in cui tutti hanno sofferto una perdita. Kisa allora accetta che il suo bambino sia morto. Può andare infine a seppellirlo». E le note di «In to my arms» non sono una contraddizione, ma una pagina di un libro che non è ancora finito.

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