Nino Migliori, parlo di me: «La fotografia è narrativa e fissa anche i sentimenti»

Nino Migliori, parlo di me: «La fotografia è narrativa e fissa anche i sentimenti»
di Angelo Carotenuto
Sabato 22 Ottobre 2022, 12:00 - Ultimo agg. 23 Ottobre, 09:03
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Quando Nino Migliori parla, ogni tanto si ferma per chiedere tu come la pensi. Deve essere un tratto degli sperimentatori. Mettersi in viaggio per capire, prima ancora che per dire. Quattro anni fa fotografò il Cristo Velato nella penombra, illuminato dalle candele, come Giuseppe Sanmartino forse lo vedeva mentre scolpiva, come probabilmente dovettero vederlo gli stranieri nella loro tappa napoletana del Grand Tour. La mostra si chiamava Lumen, una delle molte esplorazioni del fotografo bolognese sui linguaggi dell'arte, all'incrocio tra le sue passioni per Lucrezio, Leonardo, Duchamp. Ora Elisabetta Sgarbi ha girato su di lui e sulla sua incessante ricerca il documentario Viaggio intorno alla mia stanza, presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma. Migliori ha compiuto 96 anni e continua a farsi guidare da un verso di Apollinaire («Fotografia tu sei l'ombra / del sole / tutta la sua bellezza»).

Esistono posti con una luce più adatta alle foto?
«La luce più bella per la fotografia si trova in montagna, perché l'aria è più pulita. Solo che in montagna incontri montagne, e altre montagne, e altre montagne. Se non devi documentare quella, che te ne fai? Il posto più bello per un racconto fotografico è la città. Quando vai a Napoli con una macchina fotografica, puoi pubblicare 20 libri senza problemi. Tutto dipende dallo scopo del fotografo: se è dentro una ricerca estetizzante o dentro una ricerca che esprima una lettura del mondo».

Lei cosa cerca?
«Per me la fotografia è una forma di narrativa. Un discorso letterario. Scrivere con la luce e il buio, i suoi estremi. La fotografia è la scrittura di una persona che ha sentimenti e idiosincrasie riflesse nella realtà che rappresenta. Ho cominciato nel 1948. Era finita la guerra, la paura era sparita, si poteva di nuovo vivere, vedere persone, girare, scoprire.

La fotografia è stato il modo in cui mi sono ripreso la libertà».

Raffaele La Capria paragonava uno scrittore a un tuffatore. Il Tuffatore è la sua foto più celebre. Cosa voleva raccontare?
«Forse semplicemente la bravura di questo ragazzo che prende una rincorsa di tre metri, e senza avere lo spazio e il tempo di alzarsi, si piega, si mette in posizione orizzontale e va giù. Ci vuole una potenza di gambe enorme. Quella foto fu un colpo di culo eccezionale. Se prendiamo il negativo, vedrà che c'è un millimetro e mezzo di qua e uno e mezzo di là. La scattai con una comune Rolleiflex, non potevo esser certo che il soggetto fosse per intero dentro l'inquadratura. Potevo avergli tagliato una mano o una gamba. C'era tutto. Ma solo per fortuna. L'ho tenuta nascosta per anni. Non mi dava soddisfazione. Era venuta così precisa, non l'avevo cercata. Finché un gallerista americano passò da me, la vide, se ne innamorò, ne ordinò cinque o sei, la portò in patria, divenne la fotografia dell'anno. Allora capii che dovevo cominciare a utilizzarla e che le foto vengono, non si cercano».

Dove tiene i negativi?
«Dentro delle scatole di cartone, in un mobile. Saranno all'incirca qualche milione. Non sono catalogati. È un gran casino, non so mai dov'è quello che cerco, li recupero per la bravura di mia moglie e grazie alla mia assistente. È un mistero. Loro due trovano sempre tutto».

Quando una foto viene copiata, riprodotta, diffusa, è un motivo di orgoglio o una sottrazione illecita?
«Sa quante volte Il Tuffatore è stato duplicato? Non si potrebbe, servirebbe la mia autorizzazione. Ma un poeta che scrive delle rime è felice di sentirle recitare e di saperle divulgate. Se la foto viene trattata bene, che sia così. Tanto non sarà mai il Tuffatore firmato da me e stampato dal mio uomo di fiducia. Sarà una foto uguale alla mia, ma non la foto mia. Non è la stessa cosa».

Che pensa del fatto che oggi tutti fotografiamo con un cellulare?
«Non mi inorridisce. È un mezzo di relazione con gli altri. Con un cellulare ci fai tutto. Fotografi, scrivi, registri. Offre la possibilità di comunicare senza conoscere la lingua della persona a cui parli. Se mostrassi la foto di una mela a un uomo primitivo di migliaia di anni fa, ne raccoglierebbe una e me la porterebbe».

Conosce Instagram?
«No. Cos'è?».

Un social che permette agli iscritti di scattare foto, applicare filtri e condividerle.
«Non so. A lei piace? Non lo conosco. Non credo che mi interessi. Non sono mai andato a curiosare nelle foto degli altri».

Lei è stato anche docente. Come si insegna la sensibilità?
«Era la sola cosa che mi interessava. Non ho mai insegnato la tecnica. Parlavo delle foto, di come un'immagine possa essere usata per esprimere un concetto, un pensiero, una posizione su un argomento. Non mi è mai importato che fossero mosse oppure a fuoco. Mi interessa il modo diverso di guardare la realtà. È come la parola. Non si può insegnare. Puoi mostrare degli esempi. Scatti in abbondanza e scegli le migliori».

Henri Cartier-Bresson diceva che scattare un ritratto è mettere la macchina tra la pelle di una persona e la sua camicia. Che ne pensa?
«È così, senz'altro. È una piccola violenza. Per questo ci sono persone che non vogliono farsi fotografare, possono sentirsi rappresentate in modo diverso da come si vedono. Io sono così, a me non piace (La moglie dice che non è vero, nda). Non mi ritraggo, ecco. Se uno la vuol fare, la fa. Ma non mi metto in posa, per l'amor di dio. Non mi piaccio. Né fisicamente né mentalmente. Nemmeno da giovane».

Un fotografo ha dei limiti etici?
«È un fatto molto personale, ognuno ha una propria idea del limite. Io credo che documentare una situazione improvvisa e interessante non sia mai negativo. Un fotografo di guerra allora cosa dovrebbe fare? Non mostrare la morte? Nascondersi? L'autocensura esiste, non per la scelta del momento in cui scattare, non verso il pericolo. Se un soldato si alza e un altro lo uccide, se io fossi là, probabilmente non sentirei alcun vincolo. Ma non posso saperlo, non ho mai fatto il reporter. Non mi appassionava».

Le foto fanno ancora Clic?
«Una volta si sentiva quel rumore là. L'otturatore. Adesso non più. Adesso il clic si sente quando chiudiamo la porta blindata di casa».

E che suono fa oggi una fotografia?
«Sssss. Una lunga esse. Un sibilo. Dentro quella esse ci metti tutto».

Qual è la foto più bella che non ha fatto?
«Ce n'è miliardi. Vorrei arrivare a fare una foto che sia poesia. Quattro-cinque di fila. Un poema. La foto che ogni volta più desidero è sempre quella della mia nuova ricerca. Forse avrei voluto fotografare la nevicata del 29 a Bologna, la più grande che ricordi. Metri e metri. Ma non avevo la Rolleiflex. Avevo tre anni. Mi piacerebbe tornare indietro con l'età, questo sì, camminare bene, girare, avere un'altra vita. Pensi che foto farei, di nuovo giovane e con l'esperienza acquisita. Non piacerebbe anche a lei?».

Nel documentario di Elisabetta Sgarbi, lei dice di non credere in Dio.
(Un lunghissimo silenzio). «Eh. Non lo so. Non mi è ancora capitato. A lei è capitato? Le grandi domande sono tre: perché si ride, perché si muore, e dopo cosa si fa».

E dopo cosa si fa?
«Non ne ho la minima idea. Niente, non si fa niente. Per me finisce tutto. Appena morto, voglio essere bruciato. Non voglio finire dentro una cassa, andare sotto terra. Fa' che per un motivo o l'altro mi sveglio, e mi trovo al chiuso laggiù. Che spavento terribile sarebbe. E lei? Non vorrebbe essere cremato anche lei?». 

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