Pino Daniele, l'ex Fabiola Sciabbarrasi: «Così a Napoli compresi lui e la sua storia»

Pino Daniele, l'ex Fabiola Sciabbarrasi: «Così a Napoli compresi lui e la sua storia»
di ​ Fabiola Sciabbarrasi
Mercoledì 4 Dicembre 2019, 11:03
6 Minuti di Lettura
Per gentile concessione dell'editore Sperling & Kupfer pubblichiamo uno stralcio del libro di Fabiola Sciabbarrasi «Resta l'amore intorno»

E a Napoli ci stiamo andando, è inizio primavera, a Roma fa già caldo, in autostrada il termometro sale, quando parcheggiamo sento l'odore del mare e del sole che insieme mi mettono in guardia. Qua è un altro mondo. Lo è davvero.
Io mi rilasso e bevo, non acqua, luce.
L'aria ha un colore diverso, ha anche uno spessore diverso.
C'è un'assenza di spazi grandi, nel cuore della città, tra i vicoli e i muri dei palazzi più antichi, e poi c'è un'assenza di spazi piccoli sul lungomare, a Mergellina, ai piedi di Posillipo, in mezzo alla curva larghissima davanti a Castel dell'Ovo.
Tutto è immenso: la trasparenza, il respiro, la capacità dello sguardo quando cerca la linea dell'orizzonte.
Camminiamo in fretta, Pino respira troppo velocemente, Napoli è un luogo di culto, terra che scotta per il valore che ha, ma anche per come lui riesce a starci solo saltellando, incredibilmente potente la capacità che Napoli ha di stringerlo, abbracciarlo.
Da Napoli Pino si sente posseduto, tende a fuggire, per troppo amore, Napoli lo ingloba.
Oggi è il momento giusto, voglio conoscere i suoi genitori, calpestare le piastrelle che hanno sostenuto i suoi primi e secondi passi, scoprire, farmi spiegare dagli oggetti e dalle visioni che cos'era Pino prima di me.
Voglio ascoltare, voglio sedermi e guardare questo film, chiedere a più voci narranti di raccontarmi, per capire la sua storia, amarlo meglio, in modo consapevole e retroattivo. Amarlo di più.
Arriviamo in via Francesco Saverio Gargiulo, un vicoletto che una volta si chiamava vico Foglie a Santa Chiara. Peccato, una volta aveva un nome più poetico.
Io alzo lo sguardo, Pino lo tiene incollato al micromarciapiede che scorre fino all'ingresso del suo portone. I palazzi sono alti e bellissimi, non come i palazzi belli di Roma, quelli di Napoli sono più potenti, più densi, più narrativi. Chiacchierano.
Saliamo, niente ascensore, solo pietre, urbane e lucide, sono levigate e disposte a raggiera, diventano scalini larghi e chiari, hanno la solidità del marmo e il calore della pietra lavica, il Vesuvio si respira.
La porta dell'appartamento semiaperta è in legno color nocciola con la serratura dorata, scricchiola ma nessuno ci sente.
Il tempo è dilatato, arriviamo senza appuntamento, da sempre attesi, per sempre inaspettati.
Tutto è leggibile da subito. Il salotto è strapieno di oggetti, utili o semplicemente giusti, ogni dettaglio sembra casuale eppure calcolato, i tessuti sono riconoscibili, intimi, affettuosi.
Le tende di lino, la tovaglia in cotone spesso, il centrino di pizzo, il cuscino di raso, tutto è come sembra.
Esplicito, lampante, tanto vero e tanto presente.
Mamma Rita e papà Gennaro sono in balcone, non ci sentono entrare, li raggiungiamo fuori, si alzano per abbracciarci ma non sembra proprio che abbiano intenzione di muoversi.
Mi affaccio e capisco.
Capisco perché questi palazzi chiacchierano, mi rendo conto che sono di fronte ad una comunità affacciata, una comunità in balcone.
Panni stesi, tavolini metallici infilati a fatica tra ringhiere e finestre, vasi di fiori rossi, scope e palettine negli angoli nascosti e sdraio.
Sedie a sdraio, quelle pieghevoli con le sedute di cerata a fiori, oppure a striscioline di plastica elastica, fitte fitte da sembrare fili di un telaio in pvc.
C'è quell'allegria da fiera, da zucchero filato e carillon, mi sento a casa, accarezzo Pino sul collo, è un gesto che vuole dirgli che va tutto bene, che sono esattamente dove vorrei essere, che ogni cosa che lo riguarda riguarda me, che ogni cosa che lui ama la amo anch'io.
E do, finalmente, un volto alla voce di Rita, così tante volte sentita al telefono.
È come me la immaginavo, zoppica ma non se ne cura, ha gli occhi grandi e scuri, sono gli occhi di Pino con l'aggiunta del pigmento di una donna che ha sofferto e che ha fatto della fatica compiuta lo scopo di ogni giornata.
«Mamma, eccola, lei è Fabiola.»
«Ciao bella!!»
«A mà, ancora con 'sta bella, non si chiama bella, si chiama Fabiola, come te lo devo dire?»
«Chella è bella, je 'a chiamm bella! Chillu nom stran nun 'o sacc ricere.»
Mi prepara un caffè, non me lo chiede, lo fa, a Napoli il caffè è un abbraccio. Chi lo rifiuterebbe mai? Io.
Io da quando sono incinta non lo bevo più, non mi piace, Pino lo sa e mi sorride, sta lì e mi guarda, divertito, aspetta di sapere quanto sono disposta a sacrificarmi per lui.
Mi immolo alla tazzulella. La bevo in un sorso, tipo antibiotico, sto al gioco e sono felice.
La mamma di Pino apre un cassettone, il secondo sotto il piano di marmo grigio e sotto lo specchio incorniciato da riccioli di ottone, è il cassettone del comò.
Sfila a fatica una grossa custodia pesante, sembra uno scrigno ma ha le dimensioni di una valigetta.
Vedo Pino contrarsi. «No mà, liev man.»
Sono decine e decine di foto, quelle nelle cornici, sparse ovunque, hanno vinto la pole position, ma tutte le altre diventano il copione di una commedia custodita da anni nelle mani di Rita.
Guardo lei e guardo le immagini, cerco di memorizzare, è un'esperienza immersiva. È successo tutto così in fretta che solo ora mi rendo conto di aver sempre pensato a Pino in avanti, mai indietro.
Forse mi ha fatto comodo, forse guardare al suo passato era focalizzare qualcosa che, per ricominciare, Pino avrebbe dovuto rielaborare.
Ma adesso che c'è Puntina, non riesco a pensare ai conflitti, mi vengono in mente solo soluzioni, mi sembra che tutto si stia districando, è l'effetto balsamo gravidico, quello dell'anestetico a lento rilascio.
Guardo Pino a otto anni, era alle elementari ed era cicciottello, aveva gli occhiali. Rita ha un sorriso struggente quando parla di quel bambino, un sorriso compiaciuto per quel suo uomo che ha fatto i conti con tutte le altezze degli ostacoli e li ha saltati, quel figlio musicista o forse cantante «Che ne capisco» per cui ancora si preoccupa, non sa se guadagna abbastanza.
«Oh, Pinù, come va il lavoro, a mammà?»
Torniamo in balcone, io e lui, suo padre si è rifugiato in camera da letto, riposa, o scappa, non so, è complicata la comunicazione.
Siamo uno di fianco all'altro e respiriamo il mare, come quella notte sul terrazzo a Taormina, la mia sensazione di pace è la stessa.
Questo nostro tempo insieme ha aggiunto, alla pace, certezze.
Adesso so che era tutto vero, so che quello che avevo immaginato è possibile, so che Pino è il mio futuro, io
sono il suo. Forse siamo qui per questo, per congiungere i due lui, perché la percezione che ho avuto da subito, quella di conoscerlo da sempre, si possa riempire di dati, informazioni, immagini, nomi e luoghi, si possa riempire di storia, la sua.
Gli chiedo di raccontare, abbiamo tempo e siamo semisdraiati nello scenario giusto, siamo dove tutto è accaduto, dove tutto è cominciato.
«Sono nato qui, non qui, sopra, qui giù, nel sottoscala. Non sappiamo che ora fosse. Probabilmente tra le due e le tre perché mi sono sempre sentito dire che sono nato all'ora e magnà».
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