“Pizzaboy”, nuovo libro di Salvatore Dama: «Ho fatto il rider per scrivere»

“Pizzaboy”, nuovo libro di Salvatore Dama: «Ho fatto il rider per scrivere»
Mercoledì 2 Febbraio 2022, 12:19 - Ultimo agg. 12:24
4 Minuti di Lettura

Un viaggio nel mondo dei rider fatto dall’interno, con lo zainetto in spalla. “Pizzaboy” (Youcanprint, 12 euro), l’ultimo romanzo di Salvatore Dama, giornalista e scrittore campano, ha un tratto di originalità che emerge subito sfogliando le pagine del libro: per raccontare la realtà dei fattorini della gig economy l’autore ci si è tuffato dentro, andando a fare personalmente le consegne. 

Davvero ha fatto il rider?
«Per un po’ di mesi.

Di notte, con la pioggia, con il freddo. I rider fanno da corollario urbano, li vedi ovunque. Avevo la curiosità di approfondire questa realtà. Ma la letteratura che c’è in giro racconta un’unica versione: descrive il fenomeno come una nuova forma di schiavitù. Vero? Falso? C’era un solo modo per scoprirlo: mischiarsi ai rider e fare la loro vita. “Pizzaboy” è il diario romanzato di questa esperienza immersiva».

Vuole dire che non esistono forme di sfruttamento in questo settore?
«Casi limite ci sono in tutte le categorie. Ma fare il rider mi ha permesso di scoprire qual è lo spread tra la narrazione ideologicamente orientata e la realtà. E di rispondere a questa domanda: quale sfruttamento o schiavitù c’è in un’attività in cui lavori solo quando attivi l’applicazione, cioè quando lo decidi tu?».

Queste forme di lavoro a “cottimo” diffondono il precariato.
«La precarietà è insita nello spirito del tempo. Se non sei precario tu, magari è precaria l’azienda che ti ha assunto a tempo indeterminato. Il mondo dei boomer è finito. E, con esso, il sogno del posto fisso. Chi dice di rappresentare i lavoratori segue categorie che erano attuali negli anni Settanta, ancora guarda agli autonomi come fossero il male. E, infatti, oramai le sigle sindacali hanno più associati tra i pensionati che tra chi è attivo sul mercato del lavoro. Premesso questo, il mio libro non ha alcuna pretesa di descrivere il fenomeno del delivery (che ha ricaschi economici, sociali, sindacali) in maniera compiuta. Dico solo questo: prima in libreria mancava una chiave di lettura anticonformista. Ora c’è».

Sta difendendo le multinazionali?
«Chiariamo: nessuno vuole fare il rider a vita. E’ un’attività temporanea. Sulla strada ho incontrato studenti che volevano mantenersi, lavoratori che arrotondavano lo stipendio, ex commercianti o piccoli imprenditori che hanno visto il loro business andare in macerie con il Covid. Per tutti la formula del lavoro autonomo è quella più soddisfacente. Più lavorano, più guadagnano. E non perché qualcuno li metta alla frusta, prevale lo stato di bisogno: i soldi servono a tutti. I rider più esperti mi hanno fatto vedere il loro estratto conto. Viaggiano sui duemila e cinque netti. D’altronde basta guardare il caso di JustEat. E’ paradigmatico. Ha assunto i fattorini inquadrandoli nella logistica e ora quelli stanno scioperando perché lavorano il doppio e vengono pagati la metà».

È questo che racconta nel libro?
«No, “Pizzaboy” è un carosello di istantanee. Di primi piani. Però così ravvicinati da poter sentire addosso il fiato dei personaggi. Sostanzialmente mi interessava indagare in tre direzioni: il rapporto con i ristoratori; la relazione con i clienti; la colleganza tra rider. E il fatto di aver approcciato questo mondo, non come giornalista/scrittore, ma come uno di loro, mi ha aiutato molto. Mi è servito ad abbattere il diaframma della formalità, quello che si crea quando sguaini un microfono. Cosa che ti fa perdere tutta la spontaneità di un fenomeno. E ciao. Io invece ero a caccia di storie, di aneddoti, di personaggi che avessero una forte tara di verità. E di umanità. Sono stato fortunato. Perché mi si è aperto un mondo dove avevo l’imbarazzo della scelta. Avevo solo da prendere. E ho preso. Con avidità».

Questo è il suo terzo romanzo.
«Esatto. “Pizzaboy” chiude idealmente una trilogia con i miei due precedenti romanzi (“Foresteria [For Hysteria]” e “A volte esagero”). Ricorrono il fondale (Roma), i protagonisti, che sono la solita banda di ragazzacci, e il cliché dell’autore. Ovvero: vivere un fenomeno e poi raccontarlo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA