«Salerno letteratura», la prolusione di Corrado Bologna su Fellini

Corrado Bologna
Corrado Bologna
di Corrado Bologna
Sabato 19 Giugno 2021, 16:12 - Ultimo agg. 19:06
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Una volta, nel 1990, l'indimenticabile Jacqueline Risset, poetessa e studiosa, magnifica traduttrice in francese della Commedia dantesca, chiese al suo amico Federico Fellini se avesse mai pensato di girare un film su Dante. Lui le rispose: «La Divina Commedia in film non la farò mai, per una ragione semplice, che è che questo film Dante l'ha già fatto. È un visivo così geniale e così preciso, attraverso le parole, che non vedo quale senso potrebbe avere il fatto di aggiungergli delle immagini. E inoltre, che cosa ho fatto, in fondo, ogni volta, se non una discesa agli Inferi, con qualche bagliore di Purgatorio e Paradiso?».
In certo modo, dunque, Fellini fu Dante e fu anche il suo contrario: «un visivo geniale attraverso le immagini». Quest'atteggiamento di attrazione e repulsa nei confronti di Dante, e soprattutto dell'Inferno, lo accompagnarono tutta la vita, impedendogli di tradurre in immagini le parole di una sceneggiatura dantesca che lui stesso intitolò Il viaggio di G. Mastorna (1965). D'altra parte i suoi film, soprattutto «La dolce vita», sono costellati di esplicite citazioni della Commedia; Gian Piero Brunetta lo ha definito «l'apostolo più rappresentativo del verbo dantesco sullo schermo». Il Mastorna è il sogno di un film e il film sognato su un sogno: visione onirica e insieme abbozzo incompiuto e destinato a non compiersi.
Un solo esempio di come le immagini archetipiche esercitano un sicuro fascino su Fellini, il quale svolse una terapia con il grande analista junghiano Ernst Bernhard: così nacque in lui l'idea del fastoso, stralunato Libro dei sogni, il grande contenitore di immagini oniriche, preludio a molte scene di cinema. Il funerale onirico-allucinatorio di M. (personaggio immaginato sul modello del K. dei romanzi di Kafka), coinvolge un oggetto archetipico del viaggio moderno, l'aereo che, nella sceneggiatura del «Mastorna», atterra «incolume» in un misterioso «campo di evenienza» nel cuore di una città-fantasma (forse Colonia, o Roma). Poco dopo, in una stazione, come Dante all'Inferno anche M. incrocia un amico morto da quarant'anni, e comincia a gridare il suo terrore d'esser solo un fantasma, un'«ombra» e non più una «cosa salda» (Purgatorio, XXI 136): «No... non può essere io non sono morto! Non posso essere morto!... io mi tocco... io mi sento... io sono fatto di carne... il mio cuore batte... io sento... io vedo... non può essere... non può essere... riportatemi indietro...».
Dino Buzzati, grande innamorato di Kafka (basti pensare al Deserto dei Tartari), fu coautore della sceneggiatura del «Mastorna». Negli anni del «Mastorna» scrisse anche il racconto Viaggio agli inferni del secolo, che sono sicuro Fellini abbia letto: un operaio, lavorando alla costruzione della metropolitana di Milano, come nelle fiabe apre una porticina sotterranea e scopre una città che a Milano assomiglia, ma che di fatto è un Inferno moderno, tutto nell'Aldiqua.
Ermanno Cavazzoni, nel saggio con cui ha accompagnato la pubblicazione presso Quodlibet (2008) del trattamento felliniano del «Mastorna» e dell'importante lettera del regista a Dino De Laurentiis, ha riconosciuto le tappe dantesche di questo Aldilà che è il fantasma-ombra dell'Aldiqua: «L'idea conduttrice di Fellini è in sostanza che nell'aldilà ci siamo dentro, ci viviamo, è questo qui; siamo già dentro alle pene e ogni tanto dentro a zone di paradiso; e compiamo un percorso, come si compie nel purgatorio, che però non si sa a che cosa porta, cosa c'è dopo».
Descrivendo le reazioni di M. quando «lo sconvolgente sospetto di essere morto gli fa scoppiare il cuore e il cervello», Fellini introduce un personaggio fondamentale, la «bellissima hostess» dalle «lunghissime ciglia che nascondono la profondità di uno sguardo misterioso». Qui il Paradiso dantesco si rovescia in Inferno. Come Dante negli occhi smeraldini di Beatrice scorge riflesso l'universo, la cui vista diretta non può sostenere, così M. nelle «pupille azzurre» della hostess «improvvisamente vede, come in uno schermo, una scena orrenda...: ciò che è rimasto del suo povero corpo, un nero tizzone senza più forma, senza più senso; le lunghe ciglia della hostess si abbassano lievemente: l'atroce visione affonda nel liquore azzurrino del suo sguardo». Commenta Fellini: «Penso che tutto questo viaggio che il protagonista compirà nella nuova dimensione, sarà sempre costellato dalle apparizioni di bellissime Beatrici, incarnate dai sorrisi, gli sguardi invitanti, le lunghe gambe di hostess seducenti. Immagino M. e la sua ultima Beatrice su di un piccolo sentiero di montagna che continua a salire».
Paolo Fabbri, acutamente, ha colto il valore allusivo dell'«iniziatico percorso»: l'«Accompagnatore» dantesco che ha seguito M. «nella sua fase infernale» non vede né sente più M., divenuto ormai «impercettibile perché si trova in una diversa dimensione», quella purgatoriale: «È Armandino, un personaggio basso e smorfioso, un Virgilio rovesciato e ridicolo, secondo la modalità antifrastica dell'Inferno del Mastorna rispetto al dettato della Commedia». Ed è qui che entra in scena l'hostess-Beatrice. Ma l'avvento dei parodistici Accompagnatori squarcia il cielo di carta, scoprendovi un sincretismo incredibile con il modello dantesco: i romanzi di Franz Kafka, in particolare America e Il processo, e le figure degli Aiutanti che in essi assumono un ruolo di grande rilievo. Questa rivelazione diventa ancora più inquietante se si ricorda un altro dialogo che Fellini ebbe con il giornalista Costanzo Costantini, il quale gli domandò un giorno: «Kundera dice che sei l'unico che può portare in scena Kafka: pensi di poterlo fare?» Fellini rispose: «È un progetto che mi affascina da sempre, ho fatto ricerche fotografiche sull'America degli anni Venti, raccolto materiale e riempito quaderni di appunti: ma non so se lo farò. Mi sentivo già a disagio, provavo un po' di rimorso nel citare Kafka in Intervista. Kafka è uno scrittore già così potentemente visivo che mi sembra presuntuoso intervenire».
Dante e Kafka: coppia impensabile e lievemente surreale, se non, forse, sotto le volte dell'Inferno e della sua irriducibile visività. In entrambi i casi Fellini ricorre esattamente alle stesse parole, alla stessa formula. Scavando nei documenti scopriamo, stupefatti, che Kafka pensava di sé esattamente la stessa cosa che turberà Fellini: di essere «troppo visivo». Kafka non amava il cinema, come ha raccontato Gustav Janouch nei Colloqui con Kafka, che Fellini poté conoscere nella traduzione italiana del '53: «Si tratta d'un giocattolo grandioso, ma io non lo tollero, forse perché sono troppo visivo. Io vivo con gli occhi, e il cinema impedisce di guardare. Lo sguardo non s'impadronisce delle immagini, ma queste si impadroniscono dello sguardo e allagano la coscienza».
Gli Aiutanti, gli Accompagnatori del «Mastorna», nascono dunque da Dante e da Kafka: ancora una volta i due amati visivi-visionari con cui Fellini sentiva di spartire «una misteriosa affinità, una sorta di fratellanza astrale».
... Il Kafka di Fellini è surreale, visionario, ma non tragico: grottesco, invece, «basso-corporeo» e si vorrebbe dire «già felliniano», come mostra quella formidabile «trasposizione di America» a cui fu dedicata parte del film «Intervista» (1987). Con intuizione sottile Milan Kundera ne comprese la ragione paradossale, che è la comicità corporea, l'eccessività della carne femminile che attrae e terrorizza, ossessiona e sovrasta. L'archetipo della Saraghina di «8 ½», della Tabaccaia di «Amarcord» e dei mille altri donnoni disegnati da Fellini nel Libro dei sogni, è la kafkiana Brunelda, «gioiello erotico» di America, romanzo che aveva incantato Fellini, il quale spartirebbe con Kafka lo stesso «piacere esuberante» per le donne corpulente e mostruose: Brunelda, «un mostro di sessualità al limite del ripugnante e dell'eccitante», una «sessualità comica, ma al tempo stesso completamente vera».
In Fellini c'è un emblema eloquente di questa contaminazione grottesca fra tragedia e commedia, che unisce in un capolavoro di «sessualità comica» la corpulenza mostruosa della Brunelda kafkiana e l'immagine-icona di Dante, ironicamente deformata nell'Inferno assurdo dell'universo pubblicitario. Fellini ha nascosto questa estrema profanazione, che è anche un devoto omaggio alle proprie ossessioni e inadempienze, nella scena di «Amarcord» in cui Titta Biondi s'intrufola nel negozio della mastodontica Tabaccaia e la solleva più volte da terra come un colosso, in una parodia mirabile del gesto compiuto da Plutone, nel capolavoro di Bernini oggi alla Galleria Borghese, quando rapisce Proserpina e la trascina agli Inferi per farne la regina.
Quando la Tabaccaia estrae le due immense poppe sognate masturbatoriamente da Titta e dagli altri monelli di Rimini, e ficca tra quelle masse di carne la faccia stravolta del ragazzino cominciando a gemere di un piacere allucinatorio, dietro di loro Fellini colloca sul muro scrostato, al centro della scena, un poster pubblicitario con un assurdo ritratto di Dante, il cranio tagliato e il cervello ben visibile. La pubblicità sul muro dice: Fosforil. Gocciolando nel cervello di Dante il fosforo promette di acuire l'intelligenza dello spettatore attento, non distratto da quella madornale opulenza.
La Tabaccaia-Brunelda, come tutte le Sirene, è il modello tipicamente felliniano della Donna materna e seducente, pericolosa e irresistibile, paradisiaca e infernale. Dante, sullo sfondo, stupefatto osserva la sua estasi.
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