CantaNapoli comicissima: Arbore
e quei versi licenziosi tutti da ridere

CantaNapoli comicissima: Arbore e quei versi licenziosi tutti da ridere
di Federico Vacalebre
Giovedì 19 Novembre 2020, 08:20 - Ultimo agg. 20 Novembre, 09:27
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Ultimo divulgatore della canzone napoletana classica, mandolini compresi, Renzo Arbore si intesta un'altra crociata con il libro «Guarda, stupisci»(Solferino, pagine 192, euro 17) e quale sia questa crociata lo spiega il sottotitolo (non bastasse l'allusione all'allusorio verso clou di «Agata»), Viaggio nella canzone umoristica napoletana. Fan sfegatato di Bovio e Di Giacomo, lo showman foggiano (e partenopeo ad honorem) spiega come alla grande canzone romantica corrisponda una grande canzone scostumata, alle grandi promesse d'amore eterno più terrestri e transeunti desideri carnali. Insomma, va bene tessere l'elogio di «Era de maggio» e «Silenzio cantatore», ma senza dimenticare il godimento garantito (anche) dalle «trivial songs»: piacere superficiale? Sia pure, ma non è come dire «piacere della pelle»? E qualcuno vuole davvero negarselo in nome di un presunto afflato cultural-spirituale? Peggio per lui.

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Punteggiato dai contributi storiografici di Carlo Missaglia, il volume racconta autori e interpreti di una canzone comica che è stata teatro-canzone ben prima che nascesse la definizione gaberiana e/o il cabaret: ricordate i cafè chantant? E canzone d'autore ben prima di Modugno grazie ad un tipetto che si presentava in scena a fine 800 così: «Versi di Armando, musica di Gill.

Canta Armando Gill».


Si inizia con Rodolfo De Angelis («Ma cos'è... questa crisi?» e «Sanzionami questo») e Bernardo Cantalamessa, con «A risa» primo signore della macchietta, genere poi rilanciato dai vari Pasquale Cinquegrana, Nicola Maldacea, Pisano e Cioffi, Nino Taranto. Figure inattese - per il solito malinteso secondo cui i versi «seri» sarebbero più importanti di quelli umoristici - in questo elenco, sono Giovanni Capurro («'O sole mio», ma anche «Totonno e quagliarella»), E. A. Mario, Aniello Califano («'O surdato nnammurato» ma anche «Ninì Tirabusciò»), Rocco Galdieri, Ernesto Murolo. Di suo figlio Roberto, di cui Arbore è stato più che amico e discepolo e a cui è rimasto più che devoto, viene decantata la supremazia da fine dicitore alle prese (anche) con «'E dduje gemelle», «E allora» (Gill), «Pienzece buono Ciccillo mio». Solo a Carosone, l'inventore della canzone napoletana, e quindi italiana, moderna, viene dedicato spazio e importanza simile («La rivoluzione di un genio» si intitola il suo paragrafo).


A spiegare agli ultimi bempensanti e moralisti il valore di frizzi, lazzi, calembour, doppi e tripli sensi, scurrilità varie e testi a luci rosse arrivano analisi di brani come «M'aggia cura'» o «Agata», sempre della premiata coppia Pisano e Cioffi: «Nel testo lui ricorda vecchie partite di carte giocate insieme a lei, che però lo ha lasciato e che adesso è andata via. Da lì nasce il verso sublime di lui che medita un solitario, e che guardando verso l'alto pensa a lei».


Non mancano i «viventi»: fatto l'elogio di Vittorio Marsiglia come ultimo macchiettista, il libro si occupa anche de «Il mondo dopo Renato»: gli Squallor (sempre sia lodato il pornoromanticismo di «Curnutone»), l'antica socia Marisa Laurito, la canzone tamarra di Alan De Luca e Tony Tammaro (ma Federico Salvatore no?), Lucia Cassini, gli Shampoo. Mancano i Virtuosi di San Martino, i Posteggiatori Tristi, il Daniele Sepe/Capitan Capitone, il finto neomelodico Enzo Savastano, ma sono dettagli nella certezza condivisa con Arbore: una cantarisata napoletana vi/ci/li seppellirà. Sempre meglio che morire con una canzone triste, no?
 

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