Robert Burton, Anatomia della melanconia: quando la depressione si chiamava «melanconia»

Il libro che fu best seller barocco ripubblicato in una meravigliosa edizione illustrata dei Millenni Einaudi

Robert Burton
Robert Burton
di Giuseppe Montesano
Lunedì 27 Marzo 2023, 07:00 - Ultimo agg. 18:00
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Da tempo nelle conversazioni, e sorprendentemente tra i giovani, si usano con una certa facilità espressioni come «sono ansioso» e «sono depresso»; da un paio d'anni una pubblicità televisiva consiglia, in maniera soft ma sfiorando un tabù, l'uso di un rimedio per l'ansia: ovviamente un quasi placebo; e durante il Covid si è molto parlato delle situazioni ansiose e depressive della società contemporanea, affiorate allora e che riaffiorano ora forse anche grazie alla possibilità di «giustificarle» attribuendole esclusivamente al Covid. Vuol dire allora che oggi le situazioni psichiche che toccano il patologico, la malattia che Berto chiamò «il male oscuro» e che Ottieri chiamò con nomi medici, sono considerate con più conoscenza e capacità di cura? No, perché nonostante il fatto che in molti sondaggi, nascoste ma visibili dietro la maschera di espressioni come «preoccupazione del futuro», compaiano percentuali molto alte di persone depresse o ansiose, la conoscenza dei mali oscuri della psiche non è né diffusa né esente da tabù. È un fatto bizzarro, sia perché viviamo dopo Freud e Jung e Hillman e in mezzo a montagne di psicofarmaci, sia perché in Europa quattro secoli fa si analizzavano già questi disturbi con esattezza: come scoprirà il lettore così fortunato da regalarsi Anatomia della melanconia di Robert Burton, un libro che fu un vero e proprio best seller barocco e che è appena stato pubblicato in una meravigliosa edizione illustrata dei Millenni Einaudi, a cura di Stefania D'Agata D'Ottavi che oltre a tradurlo lo accompagna con una bella e acuta introduzione.

Il libro-enciclopedia di Burton è indispensabile per capire in profondità le luci e ombre dell'epoca barocca in letteratura, arte e musica: ma è anche sottile nell'anatomizzare le molteplici forme in cui la «melanconia», e cioè tristezza, insonnia, ansia, depressione e ogni genere di «oscurità» della psiche, si manifesta e si traveste. Del resto già prima di Burton la «Melancolia» incisa da Durer aveva raffigurato la sensazione che coglie i «malinconici», il sentirsi schiacciati da qualcosa che toglie gusto e colore alla vita, oppressi da un peso e da un velo scuro che impediscono di «sentire» e apprezzare le cose nel giusto valore. 

Il malinconico-depresso non vive se non dentro i suoi ossessivi circoli viziosi, dominati dalla falsa domanda che un malinconico-depresso come Baudelaire chiamava spleen, e che descrisse così: «Che vuoto intorno a me! Che buio! E che paura del futuro! Quello che sento è un immenso scoraggiamento, una sensazione di isolamento insopportabile, una paura perpetua di una sventura imprecisata, una sfiducia completa nelle mie forze, un'assenza totale di desideri, una impossibilità di trovare un divertimento qualunque.

Io mi domando senza sosta: perché fare questo? perché fare quello? È il vero spirito di spleen».

Ma se il 1850 di Baudelaire non era affatto lontano dal 1621 di Burton, allora non è affatto lontano da quel 1621 neanche questo 2023. Secondo Burton la melanconia nasce «dall'immaginazione», ma colpisce poi la ragione; può manifestarsi attraverso sintomi corporei, quelli che noi chiameremmo "psicosomatici", e diventare una patologia complessa; Burton ipotizza anche che le cause possono risalire alla «nutrice», e quindi a esperienze dell'infanzia, come se già scorgesse il trauma di Freud, ma ipotizza anche una trasmissione per via parentale, che noi diremmo genetica: e addirittura parla delle cause sociali della malattia; poi indaga l'amore e le sue distorsioni, luoghi per lui cruciali delle passioni che si legano alla melanconia-depressione: e a noi verrebbe quasi voglia di parlare di libido; e cerca di distinguere le cure basate sulla «parola» e le cure basate sui «farmaci»: e noi parleremmo di cura psicologica e psichiatrica. 

Burton in realtà cercava di porre rimedio alla perdita di senso che l'Io dell'uomo ha subito all'inizio dell'epoca moderna, e con le sue infinite citazioni del passato cercava di puntellare una psiche ormai inquieta e fratturata: ma era il 1621, e la perdita del senso era agli inizi. Oggi, a quattro secoli dall'Anatomia della melanconia, varrebbe la pena chiedersi: quanto territorio ha occupato nei corpi e nelle menti la «melanconia»? E quale e quanto futuro non coperto da un velo oscuro riescono a vedere i giovani e i giovanissimi? E forse il carpe diem apparentemente festoso in cui siamo immersi a occhi chiusi è solo un sintomo del terrore del futuro? Ma chissà se qualcuno scriverà un'Anatomia della melanconia contemporanea... 

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