Al lettore che sceglierà “Salutiamo, amico” (Giunti), di Gianfrancesco Turano, scrittore e redattore dell’Espresso, capiterà di rivivere in presa diretta una pagina quasi dimenticata della storia d’Italia e anche in questi mesi poco indagata da storiografia e pubblicistica, nonostante ricorrano i 50 anni: i moti di Reggio Calabria del 1970, che tra luglio di quell’anno e febbraio del successivo sconvolsero la città dello Stretto e attirarono l’attenzione dei media internazionali più che nazionali. Un “Vietnam domestico”, una guerra civile a un quarto di secolo dalla fine dell’ultimo conflitto, che ebbe come causa scatenante la decisione di istituire a Catanzaro e non a Reggio, che sentiva di meritarlo di più, il capoluogo di Regione.
Il romanzo che Turano anima è tutto dentro la storia di quei mesi: vissuto dalle parole di due ragazzini e di una donna che fanno parte di una famiglia di ‘ndrangheta, collusa con massoneria, destra eversiva e apparati dello stato infedeli. Criminalità organizzata, nuovo fascismo, poteri occulti: le tre anime nere che furono dietro la rivolta, a volte cavalcandola ad arte a volte domandola, secondo le convenienze. Nunzio, Luciano e sua madre Rosalba scrivono di quanto accade in città e nelle loro vite, i primi scambiandosi una corrispondenza dato che Luciano è al mare a Lazzaro, sullo Jonio, mentre Nunzio, figlio di Amedeo, tra i capi della malavita reggina, è rimasto a Reggio per stare ogni giorno sulle barricate, malgrado i 13 anni e una passione per la musica ribelle.
Le cose si complicano con l’amore. Quello di Luciano, giovane colto (aiuta l’amico, più rozzo, con l’ortografia) per Angelica, ragazzina incontrata al mare; quello di Rosalba per un militare di leva, Giovanni, anche lui saltuario narratore della vicenda, richiamato sullo Stretto per reprimere i moti e figlio dei proprietari – comunisti, persone semplici e oneste - della casa di Lazzaro dove la donna soggiorna. Niente sarà più come prima, nelle famiglie protagoniste del racconto come per gli abitanti del capoluogo mancato. La prospettiva che Turano adotta per rendere la vicenda è di tipo cubista: gli espedienti narrativi sono le lettere dei due ragazzi, una lezione di dialetto reggino e anche uno spasso, tra gli strafalcioni di Nunzio e il linguaggio ingenuo degli adolescenti; una sorta di diario compilato da Rosalba, una prova di libro civile redatto a tentoni da Giovanni, più una voce narrante che interviene sulla trama, propriamente quella dell’autore, abilissimo a sospendere il commento onnisciente tra poesia e cronaca.
La polifonia di punti di vista, che molto spesso riallaccia “ex post” il filo della storia pubblica con quello delle storie private, ricorda la tecnica di alcuni film (Iñárritu di “21 grammi”, per il montaggio sfalsato, o di “Birdman” per i piani sequenza perché sì, se ne trovano anche di letterari ed è tecnica sopraffina).
(Gianfrancesco Turano, “Salutiamo, amico”, Giunti editore, pagine 489, euro 18)