Salvatore di Giacomo e Gemito, il genio folle napoletano

Tra i punti di forza della biografia, che racconta l'apprendistato, i primi successi come il «Pescatorello», il ritiro caprese per ritrovare l'ispirazione e infine il crollo

Salvatore di Giacomo e Gemito, il genio folle napoletano
Salvatore di Giacomo e Gemito, il genio folle napoletano
di Ugo Cundari
Venerdì 17 Marzo 2023, 11:00 - Ultimo agg. 19 Marzo, 07:52
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Quando il suo amico Achille Minozzi, ingegnere e amatore d'arte, commissionò la biografia del grande scultore Vincenzo Gemito a Salvatore di Giacomo, questi in pochi giorni buttò giù lo scheletro dell'opera che doveva seguire un filo conduttore molto preciso, raccontare i travagli interiori e il disagio mentale legati al fallimento artistico. Quel libro potente, coraggioso, poetico, drammatico, edito per la prima volta nel 1905, torna oggi in libreria a 35 anni dall'ultima edizione (Nicolucci, pagine 160, euro 18): Gemito. La vita, l'opera si apre con l'abbandono del piccolo Vincenzo sulla ruota degli esposti il 18 luglio del 1852, quando il pargolo già dimostrava di essere «un mistero che, attraverso tanti trascorsi anni e la giammai placata inquietudine del suo povero cuore, sempre rimarrà da quel punto insoluto», e si conclude il 20 agosto 1887, giorno in cui l'artista fu internato in un centro di salute mentale.

Un cerchio che si chiude, secondo l'italianista Laura Cannavacciuolo che firma l'introduzione, «con l'interpretazione dell'abbandono, da parte dell'autore, alla stregua di un avvenimento traumatico primario, che sarà all'origine di una serie di condizionamenti psicologici che impediranno a Gemito di raggiungere quegli alti traguardi artistici che il suo genio avrebbe meritato».

Lo scultore (Napoli, 16 luglio 1852 Napoli, 1 marzo 1929) crebbe con la fame di chi in gioventù non ha avuto niente, e le sue prove artistiche furono spesso costellate da delusioni, quando riuscirono a essere portate a termine perché spesso le opere, da presentare ai concorsi, furono interrotte a metà, lasciando Gemito in uno strato profondo di prostrazione.

Tra i punti di forza della biografia, che racconta l'apprendistato, i primi successi come il «Pescatorello», il ritiro caprese per ritrovare l'ispirazione e infine il crollo, c'è un modo di ricostruire il personaggio molto moderno, ossia immaginando i dialoghi tra i vari personaggi, ricorrendo a documenti originali come l'atto di nascita, a testimonianze dirette e alla consultazione delle lettere, come quelle del periodo parigino spedite alla prima moglie, Matilde Duffaud, dalle quali di Giacomo deduce, sopravvalutandolo, il grande ascendente che ebbe su di lui il pittore francese Ernest Meissonier.

Colpisce una delle ultime lettere spedite alla consorte di Meissonier prima del ricovero, in cui Gemito così descrive il suo stato d'animo: «Io non ho più quella genialità di prima e non mi sento più lo stesso uomo.

Vivo in un laberindo di immagini terribili. Da una parte veggo il Demonio nelle compinazioni della vita e da l'altra parte veggo Dio con la semplicità di prima un poco più oscurato». 

Ogni biografia è un punto di vista parziale e incompleto, che mai potrebbe essere oggettivo nella ricostruzione di ogni aspetto dell'esistenza narrata, e di Giacomo, che pure è stato poeta, drammaturgo, paroliere, saggista, non è mai stato critico d'arte, e le sue considerazioni artistiche su Gemito sono state sempre messe in discussione dagli esperti del settore. Succede anche in questa edizione, con Raffaello Causa che sentenzia: «Come critico d'arte di Giacomo appare costantemente fuori tono: proclive ad una sconcertante banalità encomiastica». Allora conviene leggere questa biografia come un grande romanzo lirico in cui l'autore ha preso spunto dalla realtà plasmandola con la sua creatività, con le sue interpretazioni personali, seguendo l'imperativo estetico basato sulla «commozione che dà l'impreciso», sulla «poetica voluttà dell'indefinito».

D'altra parte, non è la vita di ognuno di noi un misto di verità e falsità, irriducibile a un blocco di bronzo ben definito? La stessa filosofia artistica di Gemito è un incrocio di realismo e immaginazione e, conclude di Giacomo, «nessuno ha più di lui, nel nostro tempo, realizzato la verità con più rara bellezza d'interpretazione e con apparenza più suggestiva». 

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