«Troppi diritti», la cruda diagnosi della crisi italiana secondo Alessandro Barbano

«Troppi diritti», la cruda diagnosi della crisi italiana secondo Alessandro Barbano
di Biagio de Giovanni
Lunedì 2 Aprile 2018, 16:15 - Ultimo agg. 4 Aprile, 09:32
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C’è una diagnosi fulminante all’inizio del libro di Alessandro Barbano intitolato “Troppi diritti. L’Italia tradita dalla libertà” (Mondadori, 2018), ed è formulata così: la crisi italiana “consiste in una ipertrofia maligna dei diritti, che si nutre, ubbriacandosene, dell’innovazione con l’avidità di un bimbo al seno materno. La malattia del Paese è un matrimonio a perdere tra i diritti e la cultura tecnologica”. L’autore è talmente partecipe di questa visione, intorno alla quale egli costruisce tutti i capitoli della sua rappresentazione, da forgiare una parola per cogliere con un solo richiamo la sua intenzione, e la parola è “dirittismo”, forse un po’ onnicomprensiva come tutti gli “ismi”, ma che sta lì ad accompagnare il lettore attraverso la descrizione della fenomenologia della crisi, ricca di temi che tutti sembrano appesi a quel filo ora indicato. Ma non sarebbe completo questo avvio senza legare i “troppi diritti” all’Italia “tradita dalla libertà”, che è il sottotitolo del libro. Tutto contro corrente, ed è giusto immaginare un lettore sconcertato, e subito in posizione di guardia, che dice: ma come? Troppi diritti? Io ho sempre l’impressione di averne qualcuno di meno di quelli che mi spetterebbero. E un Paese può esser tradito dalla libertà? Quella cosa di cui sa chi per lei vita rifiuta?

Dunque, una via impervia quella che segue l’autore, ma chiara nella sua prosa suggestiva: sì, diritti e libertà diventano malattia di una nazione e di una democrazia se perdono le connessioni con tutto ciò che a essi si deve accompagnare per farli circolare in un organismo complesso, dialettico, dove essi respirano insieme a tante altre cose, e anzitutto ai doveri, al Dovere, e alla responsabilità, parola-chiave. Ma anche alla capacità di decisione della sovranità politica, al rispetto della sapienza dei saperi, al senso della partecipazione alla libertà di tutti, alla lotta contro l’esasperazione di un desiderio che si vuol tradurre in diritto, ogni bisogno diventando diritto, saltando tutte le mediazioni. Lo stesso terreno costituente di una società, disprezzando il sapere, svincola da esso anche il potere, avviando così il proprio declino. Liberatosi da queste connessioni, il «dirittismo» si sostituisce a ogni altra potenza civile, si affida alla tecnica come potenza neutrale che rende effettiva ogni cosa possibile, e finisce con il rinnegare la stessa radice da cui nasce, se è vero che diritti senza doveri, senza l’alveo costituente della responsabilità, tradiscono la stessa etimologia della parola diritto, «ius», che ha lo stesso etimo di «iustitia». Se dovessi riassumere in una sola proposizione il principio che guida l’indagine dell’autore, direi: non si è responsabili perché liberi, ma liberi perché responsabili. Senza il dovere della responsabilità, la società umana e la stessa libertà dileguano nel nichilismo. 

Tutto questo, nel libro, non è visto sotto specie di filosofia, ma con uno sguardo dolente sull’Italia, che è il vero nerbo del lavoro. Il «dirittismo» nasce in un vuoto, è causa di molti effetti, ma a sua volta è conseguenza di una situazione di crisi che l’Italia sta vivendo in modo più teso di quanto non avvenga in altri grandi Stati d’Europa per ragioni che nascono pure da certe vicende introverse della sua storia. Una Italia, mi vien da aggiungere, forse anche «laboratorio», come spesso è avvenuto nella sua storia. Comunque sia di questo, la crisi è avvertita dall’autore come acuta, invade ogni settore della vita, e la rappresentazione di Barbano è impietosa. Proviamo a percorrerla velocemente. Crisi della delega, disprezzo per la rappresentanza, su cui poggia ineludibilmente la democrazia politica; rottura del rapporto tra potere e sapere nella diffusione di mitologie sostituive della ragionevolezza; la piazza, e la comunicazione invadente e invasiva, che tendono a sostituirsi alla mediazione politica; il radicalismo di massa che sostituisce progressivamente la partecipazione democratica. La critica delle élite si trasforma, così, nel rigetto di ogni gerarchia, e nella prevalenza, assai più che altrove in Europa, di populismi che marcano il territorio, occupando, nelle forme varie che li caratterizzano, i sistemi della vita comune. Così l’abbassamento del livello della mediazione politica scatena la forza di altri poteri, e nel libro è resa con particolare partecipazione la rappresentazione di come si è disegnato il rapporto tra potere politico e potere giudiziario, l’invadenza di quest’ultimo, e i capitoli sulla variabile giudiziaria e sul paradigma della gogna ne sono un prodotto particolarmente felice e pure molto amaro. Il Sud, nel frattempo, vive la sua «lunga notte», la sua separatezza sempre più sola. L’Italia sembra diventare un’enigma, tante questioni che si vanno aprendo, difficili le risposte.
Naturalmente, non tutte le responsabilità di questo stato di cose stanno, per dir così, nei «dirittisti» o in quella peraltro introvabile realtà che si chiama popolo. C’è l’altra faccia della medaglia, che colloca il discorso fuori dai confini della nazione Italia, e guarda al mondo, all’Europa, a una globalizzazione che crea tanti perdenti, i quali forse, anche perciò, diventano disperatamente «dirittisti».

Un discorso che guarda a una Europa che non ha saputo trovare le mediazioni giuste tra il livello di integrazione sovranazionale e le istanze di una democrazia che ancora vive in prevalenza nei confini della nazione; e dove l’euforia su diritti peraltro sempre meno tutelati vuol giustificare la dimenticanza della politica, diventando il vero alibi contro il quale combattere. Tanti temi si affollano. E giunge, in conclusione, anche un capitolo intitolato «moderati integrali» che vuole indicare una prospettiva per vincere quella che nel libro si disegna come vera e propria crisi di identità di una nazione. La direzione è riassunta con semplicità: si tratta di aprire una nuova stagione culturale, che comprenda, parole del libro, «la coscienza di un impegno civile, il senso del limite e il beneficio del dubbio». È una partenza da lontano, che si propone di mettere insieme la responsabilità del potere e la verità del sapere, ovvero la politica del futuro. Connessioni che si vanno spezzando, e che bisogna ritrovare. Un libro tutto da leggere che potrebbe aprire uno spazio di discussione in una fase così difficile della nostra storia civile.

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