Underdog, esce il libro degli eterni sfavoriti (che poi vincono)

Underdog, esce il libro degli eterni sfavoriti (che poi vincono)
di Giovanni Chianelli
Venerdì 28 Gennaio 2022, 13:02
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La nazionale calcistica della Danimarca, il tennista Ivanisevic, il pugile “Buster” Douglas, il Giappone del rugby e il Villanova nel basket, il Leicester di Claudio Ranieri e il Kaiserslautern di Otto Rehhagel, fino al ciclista Greg Lemond, Steven Bradbury nello short-track e il wrestler Daniel Bryan. Cosa hanno in comune?

Lo sport, chiaramente. E il fatto di essere degli “underdog”: alla lettera, dei perdenti. Non in assoluto, certo, perché Lemond un suo Tour lo aveva già vinto, Rehhagel le sue soddisfazioni se le era già prese e se le sarebbe continuate a prendere (dal Werder Brema alla Grecia vittoriosa agli Europei 2004) e Ivanisevic, quando trionfa a Wimbledon nel 2001 partendo da una wild card, è comunque un mito per molti. Dunque, i perdenti del volume “'Underdog” (pagine 252, euro 15), uscito da poco per Battaglia edizioni come progetto del blog sportivo Crampi sportivi, sono, come recita il sottotitolo, soprattutto degli sfavoriti. Sono quelli che partono in sordina, ignorati da pronostici e bookmakers, da critici e allenatori da bar, e invece vincono. Realizzando qualcosa in più di chi al trionfo è abituato, magari per abitudine o per ricchezza: ci ricordano che nello sport come nella vita tutto può accadere. Che Davide può mandare a terra Golia, che chiunque, con talento, impegno e qualche assist del caso, può scrivere una pagina di storia completamente inattesa, tanto più bella dato che l’inchiostro era stato preparato per i più forti.

Alla raccolta, che mette insieme queste favole sportive, partecipano tre napoletani: sono Armando Fico, 33 anni, consulente assicurativo dal 2017, collaboratore di con Crampi sportivi dal 2015, che si definisce un “calciatore mancato appena ha notato che scrivere di pallone gli riusciva molto più facile che giocarci”. E come non capirlo. Poi Claudio Pellecchia, 34 anni, giornalista professionista, oggi con un ruolo nella Pubblica Amministrazione: anche lui collabora con Crampi sportivi e la rivista Undici (due splendide realtà del racconto sportivo italiano, con vette di pura letteratura). Per Crampi scrive anche Marco Baldassarre, 41 anni, di lavoro operatore turistico, da tempo impegnato con varie riviste sportive.

Fico nel volume si è occupato dell’exploit dalla nazionale danese agli Europei del ’92 con il brano “Danimarca forever”. La storia nasce da lontano e coinvolge un’altra formazione, la Jugoslavia, “Il Brasile d’Europa”, che dopo aver acquisito il diritto a partecipare alla competizione fu esclusa, come tutti sanno, per l’inizio della guerra nei Balcani. Viene dunque sorteggiata la squadra allenata da Richard Møller Nielsen, tecnico tanto essenziale quanto visionario. Che dopo un paio di passi falsi butta fuori la Francia guidata in panchina da “le roi” Michel Platini, poi l’Olanda del trio milanese Gullit-Van Basten- Rijkaard e altri campioni, infine una Germania campione del mondo in un susseguirsi di episodi favorevoli, come la rinascita dell’outsider Henrik Larsen, che in Italia si era fatto notare nel Pisa di Romeo Anconetani più dai collezionisti di figurine che dagli amanti del calcio; per lui 3 gol, decisivi. O di vicende drammatiche: la malattia terminale della figlia di Kim Vilfort, mediano e anima dell’undici danese, rientrato per la semifinale e autore della rete che sancì la vittoria contro la Germania. Storie nella storia che Fico condensa così: “Quella della Danimarca a Euro ’92 si è rivelata una storia vera, fatta di uomini che si sono messi in gioco lottando con coraggio contro i pregiudizi propri e altrui.

E che alla fine hanno vinto. È stata soprattutto la vittoria di Møller Nielsen, ora portato in trionfo dai suoi ragazzi, della sua ostinazione visionaria e della sua incrollabile fermezza”.

Invece a Pellecchia spetta il finale, su Rehhagel, già celebrato in un altro brano del volume, tanto è vero che il suo paragrafo si intitola “Ancora lui. Otto Rehhagel, una vita da underdog”. E a quel lui dedica una citazione d’autore: “Ogni volta lui non ha fatto altro che «cominciare da un’interruzione», come scrisse a suo tempo Paul Valéry: un’interruzione intesa come una slidin’ door del presente in grado di aprirne una nel futuro, come un punto di (ri)partenza nuovo e inaspettato”. Eccola, un’altra stella cometa degli underdog: l’interruzione, il varco magico, il saltare da una stringa all’altra per cambiare il corso di eventi che sembrano già segnati. Rehhagel diventa così dell’incarnazione di “meccaniche celesti” (cit. Franco Battiato) che arrivano dritte nelle cose del pallone: “La differenza che passa tra un bel tiro che esce e un brutto tiro che entra non è altro che la dimostrazione di come gli dei del calcio abbiano deciso da che parte stare”. Più che la cronaca del suo trionfo, come è più o meno per gli altri racconti, lo scritto di Pellecchia è una disamina dell’uomo, capace di inventare successi avendo a disposizione squadrette in virtù di una filosofia di gioco antica, difesa forte, attaccante roccioso e pedalare, mentre tutta Europa andava verso la moderna zona. Un’idea di calcio che lo porterà agli scudetti col Werder Brema e soprattutto col Kaiserslautern neopromosso, infine con una nazionale greca a cui nessuno dava un centesimo.

Baldassarre ha parlato del trionfo di Lemond al Tour dell’89. Anno mirabile: è quello della fine del Muro di Berlino ed è lo stesso in cui la Francia festeggia il bicentenario della Rivoluzione e nessuno immagina che la vittoria possa sfuggire ai padroni di casa. Mentre l’autore fa notare che è l’ultimo di un’epoca: “Il 24 luglio del 1989 è il punto di svolta: il giorno che fece da confine tra due tipi di ciclismo opposti”. Il contributo si chiama “L’ultimo grande giorno del ciclismo d’annata”, individuando in quel momento lo spartiacque tra uno sport leggero e romantico, eroico quanto per famiglie, come cantava Paolo Conte, tra “i francesi che si incazzano e giornali che svolazzano”, e l’agonismo esasperato degli anni ’90, drogato da fiumi di soldi: “La corsa al guadagno, mascherata dal professionismo portato agli estremi, avrebbero finito per rovinare l’organizzazione delle gare, e anche il loro spettacolo e la loro appetibilità” scrive Baldassarre. Per parlare dell’impresa di Lemond sceglie di incarnarsi in uno dei protagonisti. Ma opta per chi a quel Tour arrivò secondo per soli 8 secondi, il transalpino Laurent Fignon dato per favorito all’inizio. “Vincitore di due Tour de France, e fino a pochi metri prima certo di averne vinto anche un terzo. Dopo quel giorno, niente sarebbe più stato lo stesso per me; non avrei mai superato del tutto quella sconfitta”. Perché poi i francesi si sarebbero arrabbiati di nuovo, come in “Bartali”, e al secondo arrivato non sarebbe rimasto che la tortura di quel distacco infinitesimale: “Quegli otto secondi sono stati, per tutto il resto della mia vita, un pensiero ricorrente: cosa sono otto secondi, mi chiedevo ogni giorno, contando i passi, contando i metri”.

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