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Valerio Magrelli tra Proust e Céline, due personalità antitetiche ma sovrapponibili

Valerio Magrelli usa un linguaggio colloquiale, a dimostrazione che la serietà scientifica non comporta necessariamente l'illeggibilità

Valerio Magrelli
Valerio Magrelli
di Felice Piemontese
Articolo riservato agli abbonati
Martedì 6 Dicembre 2022, 11:00
5 Minuti di Lettura

È difficile trovare due scrittori così antitetici. Uno Marcel Proust di agiata famiglia alto-borghese, ebreo per parte di madre, omosessuale, frequentatore appassionato dell'aristocrazia del Faubourg Saint-Germain. L'altro Louis Ferdinand Céline di famiglia modesta (i genitori erano piccoli commercianti), cattolico, furiosamente omofobo e antisemita. «Odiatore seriale», l'autore di Viaggio al termine della notte, pronto a far di tutto per mostrarsi (ed essere) sgradevole se non ripugnante, vittimista e sempre in cerca di qualcuno con cui prendersela. Mentre l'altro, l'autore della Recherche, nei rapporti con gli altri (vedere la corrispondenza) è cerimonioso fino alla svenevolezza, ossequioso delle regole, fedele alle amicizie.

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Insomma, tutto divide gli autori dei due romanzi più importanti della letteratura francese del Novecento. Eppure ci sono fili sottili che li legano e sentimenti profondi, l'odio in primo luogo, non reciproco per una questione di anagrafe. Il libro d'esordio di Céline esce infatti nel 1932, dieci anni dopo la morte di Proust (novembre 1922).

Sul complesso rapporto tra i due mostri sacri ha scritto un libro di straordinario interesse Valerio Magrelli, francesista tra i più apprezzati, nonché poeta tra i maggiori degli ultimi anni. S'intitola Proust/Céline, sottotitolo La mente e l'odio (Einaudi), ed è basato su una cospicua bibliografia. Ma l'autore usa un linguaggio colloquiale, a dimostrazione che la serietà scientifica non comporta necessariamente l'illeggibilità.

Una cosa che hanno in comune, i due, è di essere stati rifiutati da Gallimard, la casa editrice che già nei primi decenni del Novecento rappresentava un punto d'arrivo per qualsiasi scrittore, tanto più per esordienti decisamente anomali come Proust e Céline. La vicenda è nota: negli ambienti letterari francesi del primo Novecento Proust era considerato un fatuo dilettante, frequentatore di contesse e principesse, buono tuttalpiù per le cronache mondane. Pare che il pacco contenente il manoscritto del primo volume della Recherche non sia mai stato aperto, e il primo a esserne convinto era proprio l'autore. André Gide, che della casa editrice era il consulente più autorevole, non tardò molto a rendersi conto del colossale errore e a scrivere: «Il rifiuto di questo libro resterà il più grave errore della casa editrice, e uno dei rimpianti, dei rimorsi più cocenti della mia vita».

Per quel che riguarda Céline, non è esatto parlare di un vero e proprio rifiuto bensì di un ritardo nella decisione, che alla fine sarebbe stata positiva. Ma Céline, intemperante come sempre, si stufò di aspettare e si mise d'accordo con un altro editore, Denoel, che fu ben felice di pubblicare il Voyage, che oltre tutto ebbe buone accoglienze dalla critica (soprattutto quella di sinistra) e dal pubblico.

Ma il «rifiuto» ebbe effetti dirompenti su Céline/odiatore proustiano. Era per lui inconcepibile che gli potesse essere preferito un altro autore, e che la casa editrice puntasse su quello per una definitiva consacrazione nel mondo editoriale. Proust, scrive Alessandro Piperno citato da Magrelli, diventa «l'epitome di tutto ciò che Céline detesta: il rappresentante della decadenza francese». Il francese di Proust, così elaborato, gli dà il voltastomaco. Lo chiama «francese giudeizzato». Uno stile «modellato, orientale, liscio, scivoloso come la merda», a cui oppone «la lingua parlata, il linguaggio emotivo, il solo sincero, ovvero il francese popolare, franto e vitalista» dei suoi romanzi.

La sua poetica, scrive Magrelli, è basata «sulla scelta dell'argot, di certe forsennate slegature sintattiche o del portentoso uso dei puntini di sospensione». È lui l'erede della famiglia stilistica di Villon e Rabelais, è suo il progetto di «risensibilizzare la lingua», facendo in modo che palpiti piuttosto che ragionare. E «preferendo il palpito al ragionamento, Céline, stilista e colorista di parole oppone al vasto progetto mentale della Recherche l'emozione pulsante della propria scrittura».

Ma non è escluso che all'origine di tutto ci sia anche una sorta di complesso d'inferiorità, assortito con l'abituale vittimismo. In ogni caso, nel Voyage i riferimenti espliciti a Proust sono numerosi, così come, a leggerli oggi, ci sono parti del libro di Proust addirittura «sovrapponibili» al romanzo di Céline. Sono i fili sottili di cui parlavo all'inizio e sulla cui sussistenza non ci sono ormai incertezze. 

Ricchissimo di spunti critici e di riferimenti, il libro di Magrelli potrebbe essere in parte invalidato da un fatto di cronaca di cui molto si è parlato da un anno a questa parte e cioè il giallo del ritrovamento del Céline trafugato. Era noto anche perché lo scrittore ne era ossessionato - che nella fuga precipitosa verso la Germania nazista Céline aveva abbandonato una cospicua quantità di manoscritti, di cui si riteneva che fossero perduti per sempre. Non era così, i manoscritti seimila pagine! erano stati presi in consegna da chi aveva invaso l'appartamento dello scrittore, in rue Girardon, e conservati con cura. Sono stati ritrovati e affidati agli specialisti scelti da Gallimard, per essere pubblicati man mano che vengono decifrati e sistemati. Due volumi sono già stati pubblicati, e alla fine ci si potrebbe ritrovare con un Céline almeno in parte diverso da quello finora conosciuto.

Lo stesso Magrelli si era posto il problema, poiché il ritrovamento è avvenuto mentre stava lavorando al suo libro. Per fortuna ha deciso di completare la sua ricerca. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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