Zerocalcare alla Fondazione Foqus: «Dopo i curdi gli ezidi, storia di un genocidio»

Zerocalcare alla Fondazione Foqus: «Dopo i curdi gli ezidi, storia di un genocidio»
di Diego Del Pozzo
Giovedì 13 Ottobre 2022, 11:00
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Pochi artisti italiani hanno una presa così forte sul proprio pubblico come Zerocalcare. Per rendersene conto, basta guardare la fila di ragazze e ragazzi in attesa lungo i portici del cortile interno di Foqus in occasione della tappa napoletana del tour di presentazione di No sleep till Shengal, il nuovo libro a fumetti dell'artista romano, appena pubblicato da Bao publishing. Durante l'intero pomeriggio, il fumettista di Rebibbia realizza un'ottantina di disegni con dediche per quattro ore consecutive, prima di tuffarsi nell'incontro serale col pubblico e, poi, in un'ulteriore lunga sessione di autografi che conclude a tarda sera l'evento organizzato da Feltrinelli, che ha deciso di differenziare la location della tappa di Napoli rispetto alle librerie delle altre città italiane.

Anche con No sleep till Shengal (208 pagine, 23 euro) Zerocalcare riesce a parlare al cuore dei suoi lettori, grazie a quel modo di raccontare, al tempo stesso militante e generazionale, che emerge con forza nel resoconto a fumetti del viaggio effettuato nella primavera dell'anno scorso in Medio Oriente dopo quello che sette anni fa confluì nel premiatissimo Kobane calling.

Stavolta, però, a essere visitate non sono state le enclavi curde nel nord della Siria, bensì la meno nota comunità ezida di Shengal in Iraq, vittima nel 2014 di un genocidio (riconosciuto come tale anche dall'Onu) e ancora oggi minacciata sia dallo Stato iracheno che dalla Turchia, dopo aver riconquistato il controllo dell'area con l'aiuto delle milizie curde e avervi istituito una sacca di autonomia retta sui principi del confederalismo democratico alla base proprio della rivoluzione curda.

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Che esperienza è stata, dunque, quella vissuta a Shengal?
«Molto intensa e per certi versi inattesa, nel senso che pensavo di trovare, in Iraq, un Paese molto più pacificato di quello che in realtà è, estremamente frammentato e con tante autorità che si odiano l'un l'altra. Poi, attraversare l'area abitata da una popolazione colpita pochi anni fa da un genocidio è stato qualcosa di imparagonabile a qualsiasi altra esperienza fatta in passato anche in altre zone di guerra. Io non faccio mai paragoni con la Shoah, perché mi sembrerebbe di sminuire una cosa enorme come quella, però stando lì ho capito che non è un caso il fatto che anche l'Onu abbia riconosciuto quello subito dagli ezidi nel 2014 da parte dell'Isis come autentico genocidio. Questo evento ha modificato in profondità il dna delle persone, facendo calare sulle loro quotidianità una cappa opprimente sempre presente. Io ho vissuto il tutto con molta agitazione. Ci hanno portato in una caserma dell'intelligence irachena e ci hanno sequestrato telefoni e documenti, poi abbiamo avuto sempre al nostro seguito un agente segreto iracheno che ci ha detto con chiarezza che ci avrebbe sorvegliati per tutto il tempo. Ma, in generale, il tutto era davvero poco decodificabile. E molte cose andavano persino al di là della mia capacità di comprensione».

Adesso, com'è la situazione rispetto a quando lei è stato lì?
«Molto peggiorata. La Turchia ha intensificato i bombardamenti con i droni e anche molte persone che ho narrato nel libro sono state uccise».

Dal punto di vista della ricezione del pubblico italiano e occidentale, trova che il contesto sia molto cambiato rispetto al 2016 di «Kobane calling»?
«All'epoca, di Kobane si parlava molto perché era il tempo del focus mediatico sull'Isis. Oggi, invece, verso quella parte di mondo c'è una disattenzione assoluta. L'unica guerra per i media è quella in Ucraina, nella quale, peraltro, proprio la Turchia ha un ruolo centrale come mediatore. Quindi, è proprio il clima generale a essere cambiato. La maggior parte delle persone in Occidente, poi, gli ezidi non li ha mai nemmeno sentiti nominare. E, infatti, nella realizzazione del libro mi sono posto il problema di come far arrivare questi contenuti a un pubblico quasi del tutto ignaro».

Questo è il suo primo libro dopo il grande successo della serie Netflix «Strappare lungo i bordi». Nel realizzarlo, era consapevole che lo avrebbero letto anche tanti lettori che magari hanno scoperto il suo lavoro proprio sulla piattaforma streaming?
«In realtà, mi sono interrogato molto su questo aspetto, perché No sleep till Shengal è diversissimo da Strappare lungo i bordi e, quindi, ho cercato di spiegare bene i passaggi narrativi e i riferimenti geopolitici, in modo da non spiazzare troppo i nuovi lettori e da permettergli di empatizzare bene con la storia e con i personaggi». 

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