Arpino a Totò: «Lei è una pillola esilarante»

Arpino a Totò: «Lei è una pillola esilarante»
di Massimo Novelli
Giovedì 20 Luglio 2017, 09:48
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Fu uno dei primi, se non il primo, tra gli scrittori italiani di maggior rilievo, a celebrare l'arte e la grandezza di Totò in un'epoca in cui, i primi anni Sessanta del Novecento, il principe Antonio de Curtis veniva ancora liquidato come un guitto, sia pure di talento. Ma il destino, soprattutto la pochezza delle conventicole intellettuali ed editoriali del nostro Paese, hanno praticamente cancellato Giovanni Arpino detto «Arp» (Pola, 1927- Torino, 1987) dalla scena letteraria. Ne ha dato conto in modo opportuno Marco Ciriello su «Il Mattino», il 2 giugno scorso, parlando di un narratore «troppo presto dimenticato, e senza nemmeno un tempo supplementare, che la sua voce meritava».

Totò morì nell'aprile 1967. Arpino vent'anni dopo, nel dicembre del 1987. Il Principe della Risata, nell'anniversario del cinquantesimo della morte, è stato ricordato ampiamente. Su «Arp», invece, persiste il silenzio. Fatto sta che in un altro aprile, quello del 1965, l'autore di Un delitto d'onore e de La suora giovane aveva pubblicato nel settimanale «Tempo illustrato» un lungo articolo, per la sua rubrica «Le lettere scontrose di Arpino», intitolato «Totò, pater et magister», dove rammentava, tra le altre cose, che «Lei, come Totò, è un formulario dell'arte comica, una ricetta, un instancabile robot, una pillola esilarante da trangugiare nel grigio del vivere quotidiano». E aggiungeva: «Se il nostro Paese fosse più civile, più ordinato, più semplice da vivere, più rispettoso di se stesso, anche la sua posizione come Totò, dico sarebbe diversa». Arpino, nel sogno di un'Italia più civile, avrebbe desiderato vedere Totò commentatore per la Rai dei fatti quotidiani.

«Lei potrebbe illuminarci, ogni sera - scrisse - in cinque minuti televisivi, con un commento ai fatti del giorno: dopo il telegiornale, i cinque minuti di Totò e il suo saper dire. A sua libera scelta, potremmo ascoltarla parlare su ogni cosa: su un delitto, su una disposizione ministeriale, sugli astronauti, sulle difficoltà economiche, sul suo pappagallo Gennaro, sui giovani o sui partiti. Sono sicuro che la sua funzione assumerebbe toni critici tutt'altro che qualunquisti». Una «sua smorfia», proseguiva Arpino, «potrebbe aiutarci a mettere nel giusto quadro una tiritera dell'onorevole Moro o la questione degli alberi abbattuti dall'ANAS. Questo è quanto meritava il suo Totò: un agire concreto, un calarsi nelle verità spicciole per tirarne fuori, alla lunga, di grandi e di comuni». Quel Totò, affermava «Arp» nello scritto per «Tempo», che «ha disegnato un italiano-tipo che non ha nulla a che fare con le caricature dei comici più correnti. Lei ha colto un italiano che non ha bisogno di essere trafitto nei suoi difetti più vieti. () A me è sempre piaciuto, tra le righe, il suo italiano figlio della burocrazia, che parla del linguaggio da ufficio, che è matto ma a suo modo inserito in un sistema giuridico ben preciso, dove esistono gli avvocati, le corte d'assise, le preture, i carabinieri, gli ospedali, la carta bollata, gli uscieri, i controllori dei vagoni letti, le guardie civiche, i metronotte, i portinai, insomma tutta la gerarchia temporale di una vita civile che si dipana a fatica».

L'articolo di Arpino commosse moltissimo l'attore napoletano. Così da Roma, il 12 aprile, volle ringraziarlo con una lettera, oggi conservata, come l'articolo di «Arp», dalla vedova Caterina Arpino e dal figlio Tommaso. Mostrati a un convegno a Bra, nel 2008, passarono ovviamente pressoché inosservati. Adesso, a mezzo secolo della scomparsa di Totò e a vent'anni da quella di Arpino, quelle parole semplici, vere ed emozionate del principe de Curtis restituiscono agli immemori tutta la personalità umana e letteraria di Arpino, oltre a confermare, se mai ce ne fosse bisogno, la nobiltà d'animo, la genialità artistica, di Totò. Nel rivelare la sua commozione («Se le dico che mi sono venute le lacrime agli occhi mi crede?»), il grande comico scriveva: «Grazie carissimo, per gli elogi che ha voluto fare sulla mia modesta arte: è un onore per me il sapere che essa è stata apprezzata più di quanto io stesso potessi sperare od immaginare da un uomo di alta cultura come lei, letterato illustre e romanziere finissimo». Concludeva Totò: «Mi scusi se mi esprimo male ma le parole non bastano per dirle ciò che provo nell'animo. Spero che in un prossimo futuro avrò la gioia di conoscerla personalmente per meglio ripeterle a viva voce tutta la mia gratitudine e la mia profonda simpatia. Antonio de Curtis».