David Lachapelle al Maschio Angioino di Napoli: «Nudo e fede, mix perfetto»

David Lachapelle al Maschio Angioino di Napoli: «Nudo e fede, mix perfetto»
di Giovanni Chianelli
Mercoledì 8 Dicembre 2021, 08:00 - Ultimo agg. 9 Dicembre, 07:13
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La voglia di fare una mostra a Napoli non gliel'ha suscitata Andy Warhol, il suo primo maestro, che pure la conobbe bene. Sembra che l'abbia scelta tra un elenco di mete possibili esclamando: «Voglio Napoli, è il posto con più fascino». Ecco, allora, David Lachapelle sino al 6 marzo esporre nell'Antisala dei baroni al Maschio Angioino. Agli organizzatori di Next Exibition - in collaborazione con Alta Classe Lab, Fast Forward e Next Event - ha consegnato l'esposizione che porta per titolo il suo nome, la prima, nella sua carriera, senza cornici, le fotografie quasi poggiate sui pannelli. Come se ci si trovasse nel suo studio, una forma volutamente approssimativa che, spiega l'artista di Simsbury, Connecticut, 58 anni, sposa bene con l'austerità solenne del luogo e l'idea di verità che la città gli ispira. 

Ci ha passato oltre dieci giorni, nel castello, perché la mostra arrivasse al pubblico proprio come un prodotto «site specific», anche se gli scatti, oltre 50, non sono certo nuovi. Anzi. In gran parte risalgono al periodo dal 2000 al 2020, con qualche eccezione: il ritratto di Warhol è del 1986, quello di Michael Jackson è datato metà degli anni 90. Del 2009 la meravigliosa immagine di Naomi Campbell a seno nudo in «Rape of Africa», più recente la foto senza veli di Miley Cyrus.

Poi una serie tra sacro e profano: «Annunciation», «Crucifixion», «Staircase to Paradise», in cui figure nude posano nelle vesti di Gesù, la Madonna, Maria Maddalena, c'è persino una Kim Kardashian desnuda in una posa che ricorda il «Salvator mundi» di Da Vinci. Fino al Cristo più volte evocato nella mostra, compresa una foto, «Behold», il cui modello è il ballerino russo Sergei Polunin, un redentore in blu, che viene riprodotto su una parete in plexiglass in cui Lachapelle ha stampato i suoi negativi degli anni 80 riempiendoli di colore. 

Lachapelle, perché proprio Napoli?
«Avevo conosciuto la città negli anni scorsi. Il primo elemento che mi ha colpito è la presenza di chiese, tante, anche in punti assurdi, l'impronta di sacro in un posto spesso pericoloso. Mi spiego, non è un'offesa: ma è una città in cui il rischio è nell'aria, dal motorino che ti travolge all'atmosfera di certe strade. Eppure è il suo fascino, fa il pari col fenomeno, splendido, delle persone che parlano da un palazzo all'altro. Energia allo stato puro, sacro e profano che si rincorrono continuamente».

Qui tutto questo si chiama «oleografia». Ma le sue foto tutto sono tranne che oleografiche.
«Mi piace confondere il nudo con l'immagine legata alla fede perché - guardando a Michelangelo di cui ho ammirato più volte la Cappella Sistina - penso che nella bellezza di un corpo, anche nudo, si esprima la grazia di Dio. Questo, tra l'altro, mette insieme due mie passioni: la forma umana e la fede: sono credente, cresciuto nel cristianesimo, non posso prescindere dall'elemento sacro in molti dei miei lavori».

Come fa la sua fotografia a mostrare nudità senza diventare pornografica?
«Dipende tutto dall'intenzione che si imprime in un soggetto artistico. Il confine è labile, la volontà dell'autore fa la differenza. Per secoli l'artista ha rappresentato la nudità, soprattutto femminile, per motivi di dominio di genere e perché è più nascosta. Io affronto spesso il nudo maschile e devo studiare bene la posa, la luce, l'idea dell'opera perché non risulti bassa, volgare».

Alcuni scatti in mostra vengono dal periodo in cui si occupò di Aids. Che differenze tra quel mondo e oggi, in cui viviamo un altro genere di contagio?
«Totali. Fu un periodo altrettanto terribile, in cui persi molti amici. Ma era circoscritto a particolari nuclei sociali. Questo di adesso è un momento peggiore, oscuro. La precarietà è nell'aria. Ed è il motivo, oltre alla dedica a Napoli, per cui ho deciso di esporre per la prima volta senza fronzoli, a sottolineare la fragilità del nostro tempo. Come se non fossi ancora davvero uscito dal mio studio, chiuso dal male che ci divora».

Che non è solo l'emergenza sanitaria.
«No, è un periodo piatto. Soprattutto artisticamente. Neanche New York si salva. Io sono cresciuto in una metropoli frizzante, che non dormiva mai, piena di stimoli di ogni genere, ora è cambiata. Mi sono formato al suono di Beatles, Stevie Wonder e Joni Mitchell. I giovani di oggi chi hanno, a chi guardano? Non ci sono più correnti, movimenti, nell'arte e nella società. Sono preoccupato per i ragazzi, mi sembra che la società non gli offra nulla di interessante».

Nemmeno i Maneskin, recenti supporter dei Rolling Stones?
«Ne ho sentito parlare, ma non mi pare presentino elementi di novità». 

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