Creare un cortocircuito visivo inserendo in dipinti classici elementi fuori scala e fuori tempo, completamente avulsi dal contesto, oppure estrapolando dettagli cui per una volta si concede la ribalta, trasformandoli cioè in protagonisti inattesi. Sono questi i «Disastri» proposti da Ida Tursic e Wilfried Mille, coppia d'arte e nella vita (lei serba e lui francese, entrambi nati nel 1974), che hanno iniziato a lavorare insieme nel 2000, in pieno clima di antipittura, sperimentando forme di libertà artistica approdate poi a una pratica concettuale. Tursic & Mille tornano per la loro terza mostra napoletana alla Galleria Artiaco (inaugurazione oggi ore 19, piazzetta Nilo 7), e parlano di catastrofi, «ma non da intendersi come risonanza di eventi politici, economici o ecologici attuali, piuttosto come equazione matematica: cioè quando una funzione cambia improvvisamente forma».
E i cambi di forma, e di senso, per loro sono il pane quotidiano. Basta percorrere le sale della galleria per rendersi conto di quanta lucidità c'è nella loro analisi e di quanta ironia sono capaci: «La dama con il liocorno» di Raffaello - icona di bellezza ma di per sé già opera resa straniante dal cucciolo di unicorno teneramente tenuto tra le braccia, come fosse un gattino - qui subisce la presenza di spaziali Ufo; la dolce fanciulla ritratta nel settecentesco «Souvenir» di Jean-Baptiste Greuze, nella loro riproposizione abbraccia un dinosauro gonfiabile; il «San Giovanni Battista nel deserto» di Bosch accoglie due figure contemporanee assolutamente in contrasto con la scena. Tutti particolari che spiazzano lo spettatore trasportandolo in una dimensione altra. E poi ci sono personaggi del nostro millennio che piovono come marziani in paesaggi seicenteschi, oppure figure estrapolate dalle pubblicità anni Sessanta che sorridono felici in contesti inquietanti. Altri quadri appaiono in alcune loro parti incompiuti, quasi l'opera fosse aperta, pronta a ricevere nuove incursioni di dettagli estranei.
Il cambio di registro a cui Tursic & Mille fanno continuamente riferimento, non è da ritenersi negativo: piuttosto loro sottopongono i quadri del passato a una sorta di aggiornamento temporale. In un loro dipinto compare la regina Elisabetta; in un altro una grande mucca fuori scala, sgraziata e screscitata, irrompe nella composizione lirica di un paesaggio bucolico; in un altro ancora un pezzo di formaggio Emmental irradia raggi luminosi in un'improbabile sacralità religiosa. Un'opera mostra un alchimista all'incontrario, cioè che trasforma l'oro in rifiuto: è una metafora del fare umano, che troppo spesso distrugge la bellezza che lo circonda. In una sala fanno capolino 4 piccoli ritratti di cani, ognuno estrapolato da un dipinto famoso (Tiziano, Goya) nell'intento di trasformare in protagonista quella che invece era una presenza solo marginale: una sorta di dare voce a chi non ce l'ha. Bellissimi infine nove dipinti astratti in cui il colore è dirompente: opere realizzate su lastre tipografiche off-set usate per la stampa di un loro catalogo, su cui il colore è stato stratificato in maniera corposa, assecondando un'idea di pittura materica che dà vita a paesaggi astratti di grande profondità e forza visiva.
Un discorso a parte merita il dipinto «Giallo Napoli», dichiarato omaggio alla nostra città, con un Vesuvio ocra che viene mangiato da quattro commensali. «Quando sei un artista hai spesso a che fare con il Giallo Napoli, un colore fondamentale nella tavolozza di ogni pittore. E poi noi amiamo Napoli, una città piena di storia e storie, in cui ha vissuto Caravaggio e dove i paesaggi sono belli e potenti. L'altro giorno, quando c'era cattivo tempo, abbiamo passato tre ore a fotografare la tempesta, il vento sul mare, la pioggia che bagnava in una luce speciale tutta la città».