Kathryn Weir, direttrice artistica del Madre, il museo d'arte contemporanea napoletano, sta spiegando i valori della mostra «Utopia e distopia», inaugurata ieri, la prima che cura da quando è in carica. Mentre parla delle prime opere esposte, «Urna» di Alexandre de Cunha e un estratto da «Le mani sulla città» di Francesco Rosi, collocati proprio all'inizio del percorso, si diffondono le note di «'Nu latitante» pescate da una trasmissione di una tv privata degli anni 90 che uno schermo tra le installazioni video della mostra, di Franco Silvestro trasmette.
Un contrasto potente tra arte contemporanea, grande cinema e espressione nazionalpopolare che da solo condensa il senso della mostra in cui espongono 55 artisti, stranieri e italiani, tra cui molti campani: «Abbiamo cercato di raccontare mezzo secolo di cambiamenti a Napoli e al Sud tramite i linguaggi più vari. Fotografia, video, installazioni, scultura. La domanda era quanto le promesse di prosperità che il secolo scorso aveva formulato fossero mantenute, se non avessero prodotto gli squilibri che la pandemia ha messo in luce», dice la Weir, il cui inizio di attività (gennaio 2020) è stato complicato dal lockdown. «Una delle risposte possibili, oggi, è il ritmo di vita del Mezzogiorno, tra le zone più minacciate di perdita dell'identità». Il sottotitolo della mostra riporta «Il mito del progresso partendo dal Sud». La riflessione sull'ambiente si fonde a quella sui diritti, l'indagine sul destino di un territorio a quella sul corpo, specie delle donne.
«Mostra importante, necessaria» la definisce Angela Tecce, da pochi mesi presidente della fondazione Donnaregina, presentandola con Rosanna Romano e Patrizia Boldoni della Regione e Ninni Cutaia, direttore della creatività del ministero. E per capirla, questa importanza, si può partire dall'opera di Joseph Beuys «Casa Orlandi», del 1971, manifesto della storica esposizione «La rivoluzione siamo noi», che entra a far parte della collezione del Madre insieme a diversi lavori della mostra: la serie «Vapori» di Antonio Biasucci, i collage di Tomaso Binga, alter ego di Bianca Menna, le grandi mappe del Ghana con sovrapposti i reperti industriali dell'ex Ilva di Bagnoli di Ibrahim Mahama.
La mostra dura fino all'8 novembre, si trova al secondo piano del museo ed è divisa in 6 sezioni, anzi spazi: urbano, rurale, periferico, industriale, extraterritoriale, corporeo.
L'ultima sezione, lo spazio del corpo, è dominato dall'arte femminile e napoletana: Betty Bee, Rosy Rox, Roxy In The Box, mentre Catherine Opie rivisita in foto l'iconografia della Madonna con bambino. La fine del percorso, dopo la teca in cui Rebecca Horn imprigiona una farfalla meccanica e Giulio Paolini fa un «Icaro» con matita su carta, è sancita dalle poesie di Pier Paolo Pasolini e Anna Maria Ortese: «Uragano sconvolse questa povera terra. Tu, albero, sei il monumento nero delle nostre memorie» scriveva l'autrice di Il mare non bagna Napoli.